Intervista a Claudio Coletta




A tu per tu con l’autore


 

Lei ha scritto un libro, che si presenta come noir, ma anche come una profonda riflessione su temi estremamente importanti, quali la condizione dei profughi e va ad eviscerare un lungo pensiero sull’etica. Su quest’ultimo poi, mi permetta, è riuscito a mio avviso a far passare molto bene il messaggio, con chiarezza e molto tatto, ma senza omettere ciò che purtroppo è la realtà. Nei ringraziamenti, lei spiega che era da un po’ che voleva scrivere un libro così, ma che non sapeva come affrontarlo e poi, di fronte ad un caso veramente accaduto, ha visto aprirsi una finestra e le idee hanno iniziato a fluire nella giusta direzione. Perché ha avvertito il bisogno di dar vita ad un libro così importante?

La ringrazio per l’aggettivo, spero condiviso dai miei futuri lettori. Di sicuro importante lo è stato per me, come accade quando una storia ti entra dentro e non ti molla più finché non ti rassegni a sederti e provare a scriverla. Il guaio è quando non ci riesci, ma non è stato questo il caso, per mia fortuna. Lessi un articolo a riguardo sulla cronaca internazionale Repubblica un mattino del gennaio 2017, e capii subito che era quella la chiave per raccontare ciò che avevo in mente, e nessun’altra. Devo dire che è sempre stato così, per i miei precedenti romanzi, e questo non fa eccezione.

Il personaggio di Lorenzo Baroldi mi è piaciuto moltissimo perché incarna il medico che tutti vorrebbero incontrare sulla loro strada. Attento, riflessivo e con una certa dose di autocritica che lo porta spesso a riflettere su ciò che ha fatto, per capire se si è mosso nel modo giusto o se avrebbe potuto fare di meglio. Documentandomi su di lei, ho visto che questo personaggio è comparso per la prima volta in un altro suo romanzo intitolato “Viale del Policlinico”, edito da Sellerio, e mi sono ripromessa di leggerlo appena possibile. Com’è nato Lorenzo? Ha influito in qualche modo il fatto che anche lei sia un medico?

Naturalmente ha influito, e molto. Non si diventa medici per caso, e non si smette mai di esserlo. Lo so, esistono dolorose eccezioni a questa regola, eppure Lorenzo Baroldi è un medico a tutto tondo, di quelli che non pensano alla malattia, ma all’uomo che ne soffre, e a come aiutarlo, prima di tutto. La diagnosi, certo, ma perché serva a curare meglio i sintomi, e se possibile a guarire. In “Viale del Policlinico” Lorenzo era uno studente di medicina al suo ultimo anno di corso, e già allora portava dentro di sé le peculiarità umane che conducono a una buona medicina, ovvero a quell’insieme di pensieri, atti, parole che danno luogo all’atto della cura, inteso nel senso più comprensivo del termine. Non c’è solo autocritica, in lui, ma anche autoironia, e lo sottolineo, perché il rischio è sempre quello di una eccessiva drammatizzazione. 

Anche il poliziotto Nario Domenicucci compariva già nel suo primo lavoro. Potrebbe raccontarci com’è nato, a chi si è ispirato e a chi, fra lui e Lorenzo è più legato e perché?

A parte il mio ultimo romanzo, “Prima della Neve”, che può essere definito non di genere, Nario Domenicucci compare in tutte le mie storie. Ai tempi di “Viale del Policlinico” era un giovane celerino di quelli che noi sedicenti rivoluzionari di sinistra prendevamo a sassate durante le manifestazioni, e dai quali venivamo spesso brutalmente caricati e manganellati. Qualcuno di loro (e di noi, anche) ci ha lasciato la pelle, purtroppo. In seguito, promosso al ruolo di Ispettore dell’Europol, compare in “Amstel Blues”, il mio secondo romanzo ambientato ad Amsterdam, e in “Il Manoscritto di Dante”, la cui storia si svolge a Parigi. Sono molto affezionato a questo personaggio, che ha avuto il ruolo di filo conduttore delle mie storie pur essendo protagonista solo nel mio terzo romanzo, quello parigino. Ne “Il Taglio dell’Angelo” l’ho fatto tornare subito al suo posto, però. E’ stato lui a chiedermelo, perché è un uomo timido, innamorato di sua moglie e padre di un ragazzo Down, cui è legatissimo. Non certo il prototipo del poliziotto di tanti noir contemporanei, semmai un personaggio che sarebbe stato caro a Dürrenmatt, o a Simenon.   

Ad un certo punto del romanzo, il dottor Baroldi si ritrova a fare questa riflessione: “Aveva visto la medicina cambiare in fretta sotto i suoi occhi, le macchine prendere sempre più spazio e l’arte di saper curare, appresa al prezzo di fatiche e di errori, trasformarsi in un inutile fardello. Una sola cosa era rimasta identica in tutti quegli anni: la malattia, con il suo strascico di sofferenza, paura, speranza, per questo si ostinava a leggere ogni volta l’anamnesi, a parlare con i pazienti, a visitarli di persona sotto lo sguardo perplesso, a volte annoiato, più spesso spazientito dei colleghi più giovani”. Ne sono rimasta colpita e mi ha fatto venire la pelle d’oca, anche perché è una sensazione che si percepisce sempre di più. Lei, da medico, la condivide completamente o su certe cose, nel suo pensiero, differisce da Lorenzo? Qual è l’aspetto che preferisce di più nella sua professione?

La condivido pienamente, non c’era la minima ombra d’ironia, in quello che ho scritto. Ho l’età di Lorenzo, e la medicina che mi è stata insegnata dai Maestri di allora era quasi interamente basata sui cinque sensi, e sulla forza della parola. Si moriva di più, certo, non avevamo le terapie disponibili oggi e neppure sofisticati strumenti diagnostici, ma lo ripeto, la medicina è un’arte che richiede cuore, cervello e soprattutto empatia per la sofferenza altrui, capacità di comunicare con i pazienti che ti si affidano. Per questo la risposta alla sua ultima domanda è: l’anamnesi. E’ il colloquio che si ha con la persona che ti chiede di essere curata, e che ti affida il suo corpo, il passaggio di gran lunga più importante, non può esistere una buona pratica medica senza una buona anamnesi.

A fare da cornice in tutta questa storia c’è lei, Roma, fra luci e ombre, fra dedali di viuzze, monumenti e mercati che, con la sua scrittura, fuoriescono dalle pagine e assumono vita propria e una propria dimensione. Cosa rappresenta per lei questa città?

Il mio presente, il mio passato e, spero, il mio futuro, per quello che mi sarà concesso. Impossibile spiegare cosa un amore rappresenti per noi stessi, lo si accetta, un po’ stupiti, e si va avanti. Più o meno è questo, quello che provo ogni volta che mi trovo a passeggiare per la mia città. 

Siamo giunti alla domanda finale, che per chi passa da Thrillernord è immancabile. Anche lei, come Lorenzo è un grande lettore? Se sì, qual è il suo genere di riferimento e, dato che siamo appunto in Thrillernord, c’è spazio fra le sue letture anche per gli autori nordici?

Sono un lettore vorace, ancora di più mentre sto scrivendo, a differenza di quanto affermano molti miei compagni di penna, diciamo così. Se per nordico s’intende tutto ciò che è al di sopra dell’Italia, intesa come latitudine, apprezzo molto la letteratura noir di lingua francese e tedesca, come si capisce dai due autori che ho citato sopra. Un po’ meno i polizieschi e i thriller scandinavi, che mi lasciano piuttosto freddo (non faccio ironia), anche se apprezzo la letteratura nordica mainstream, e in generale le storie ambientate nei luoghi in cui la luce sia più orizzontale possibile, perché amo la profondità che dona a tutto quello che ci circonda. 

Grazie per il tempo che ci ha dedicato.

Loredana Cescutti

 

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