Intervista a Daniele Mencarelli




A tu per tu con l’autore


Il romanzo ha un forte tratto intimistico e quasi da diario essendo molte parti, se non tutto un flashback.  Come lo hai costruito, prendendo appunti  e poi riordinandoli ? Come il protagonista hai sempre un quaderno aperto  e lì aspetti la voce del mondo?

Il romanzo racconta un anno della mia vita, ho tentato di essere fedele a quanto vissuto, per quanto sia possibile, la fatica più grande è stata senz’altro di tipo umano: affrontare di nuovo tutta la mia vicenda, ho sofferto e fatto soffrire, per fortuna alla fine di tutto c’è l’alba, la rinascita. Non ho un approccio diaristico alla scrittura, tendo più al lavorio interiore, al massimo appunto parole. Almeno sino al momento in cui decido di scrivere, il quel periodo la scrittura diventa la mia padrona…

Quanto ti è servito scrivere questo libro e lo ritieni una testimonianza  e/o esempio di resilienza? Sei ancora in contatto con l’ospedale Bambin Gesù?

Il Bambino Gesù è rimasto nella mia vita: ho due bambini, il primo è in cura da un medico dell’ospedale. A parte questo, oltre questo, c’è una questione più personale. Continuo a testimoniare l’esperienza al Bambino Gesù perché si è trasformata in me in una specie di unità di misura, capace di svelare l’esatta dimensione di quel che vivo e vedo. Se rapportato ai bambini malati dell’ospedale, alcune delle nostre beghe dovrebbero al massimo strapparci un sorriso. Ecco, dare cognizione del dolore, della malattia, e al tempo stesso mostrare che da tutto si può rinascere. Di questo vorrei portare testimonianza, come autore e uomo.

Il tuo romanzo credo renda palese lo spaesamento  e l’essere inadatti di una generazione all’interno di una “società del produrre” . Una resa  all’ineluttabile dell’oggi sublimato nelle dipendenze; l’arte può essere un modo per ricostruirci o quale via pensi si possa seguire?

Lo spaesamento è dell’uomo di fronte all’esistenza. Facciamo finta di niente, ma per quanto ci ostiniamo a rimpiccolirla, la vita resta un’esperienza scandalosa, piena di interrogativi senza risposte, di sentimenti invisibili. La vera malattia della nostra epoca è, scusa il gioco di parole, aver reso tutto una malattia: la patologizzazione dell’individuo, oggi un certo tipo di vitalità, ad esempio di fronte ai grandi temi della vita, come la morte, Dio, è presa per disturbo…assurdo. Questa deriva nasce anche da un fatto: l’individuo che pensa alla propria esistenza è consapevole a se stesso, probabilmente meno attratto da tutto ciò che è vacuo, come un certo tipo di consumi, ed è, anche, meno produttivo, perché sa che le cose fondamentali stanno altrove. L’arte, come qualsiasi attività umana, non è in grado di farci rinascere. Ci fa rinascere solo l’amore, verso gli altri e noi stessi, almeno questo mi ha detto la mia esperienza.

Che progetti hai in cantiere?

A breve, comincerò a scrivere il nuovo romanzo, sarà sempre un’immersione nel mio passato. Questo per la narrativa, per la poesia, invece, dovrebbe uscire in autunno la mia nuova raccolta. La poesia è l’istinto primo, vive nello sguardo.

Quanto tempo leggi e che rapporto hai con la lettura? Hai un genere ed autori preferiti, quali consiglieresti? 

La lettura resta un’alchimia inarrivabile, quando leggiamo qualcosa che ci piace i vincoli di tempo e spazio si annullano, ci sembrano trascorsi dieci minuti, invece sono tre ore. Anche per lavoro, leggo molto, tutti i giorni.  Il mio genere di riferimento è la poesia, senz’altro. Il novecento italiano è la mia casa, dove torno appena possibile. Caproni, Sbarbaro, Ungaretti. Sono diventati per me come fratelli maggiori.

Daniele Mencarelli

Francesco Morra

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