Intervista a Denise Jane




A tu per tu con l’autore


Ciao Denise, complimenti per la vittoria del prestigioso premio dedicato ad Alan D. Altieri e grazie, anche a nome di ThrillerNord, per aver accettato di rispondere a qualche domanda su “Emerson Ray- Prodigal Son” che uscirà come n° 50 “special” in edicola in agosto per la collana Segretissimo Mondadori.

Ciao Salvatore, grazie a te e a tutta la famiglia di Thrillernord.it!

Come nasce la Denise Jane scrittrice di spy-stories, visto che alcune tue amiche frequentano le strade del giallo con grande successo, avendo vinto premi di grande importanza?

Personalmente, nonostante avessi ottime compagne di viaggio nello scrivere, non ho mai sentito il giallo classico come un genere nelle mie corde per due motivi principali: innanzitutto, ho sempre avuto una preferenza per prospettive più ampie rispetto allo scenario locale che è una delle cifre caratteristiche del giallo all’italiana. In secondo luogo, piuttosto che scoprire “whoddunnit” (chi è stato) mi è sempre interessato di più capire il perché.
Dal mio punto di vista, la spy story è il solo genere che possa coniugare queste due esigenze restando, nel contempo, di grande intrattenimento.

E come nasce Emerson Ray, protagonista del romanzo vincitore del premio Alan D. Altieri?

L’embrione che ha dato vita a Ray l’ho – per così dire – rubato da una persona che ho conosciuto tramite mio marito, e che davvero ha lavorato in Afghanistan per un certo periodo della sua vita. L’accento, il modo di parlare che io ho nelle orecchie quando scrivo sono i suoi.
Poi però Ray si è sviluppato per conto proprio, ha assunto un altro aspetto fisico, una diversa biografia e alla fine anche la personalità è rimasta solo in alcuni dettagli simile a quella dell’ “originale” Per quanto riguarda le ispirazioni letterarie, a posteriori ho riconosciuto un fortissimo debito verso i fumetti di Tex Willer che leggevo da bambina: inconsciamente mi sono accorta di aver trasferito sul mio personaggio lo stesso senso di giustizia senza bandiere (e molto fai-da-te) dell’eroe di Bonelli.


Eri cosciente di avere scritto un storia forte e avvincente quando hai mandato “Prodigal Son” al concorso?

Sapevo di aver lavorato sodo e al meglio delle mie possibilità in quel momento. Avevo studiato molto bene il contesto storico e l’architettura del romanzo. Poi, però, se una storia sia avvincente o meno lo deve decidere chi la legge, non chi l’ha scritta! Inoltre, essendo stata a mia volta giurato in qualche contest letterario, ero consapevole del fatto che spesso una storia ben costruita non è sufficiente a vincere i concorsi.
Hai scelto prima il protagonista della tua storia, la trama oppure lo scenario afghano?
In principio era Ray. Conoscevo la sua biografia, sapevo che lavoro faceva e dove, quindi il teatro afghano era una scelta quasi obbligata. La trama è venuta per ultima.


Quale parte è stata più impegnativa, la costruzione del personaggio, la ricerca di un’ambientazione adeguata oppure la documentazione per creare uno scenario credibile e a prova di errore?

Una delle cose più difficili per chi scrive di spionaggio, dal mio punto di vista, è riuscire a dare un quadro completo dello scenario socio-politico in cui si svolge la vicenda al lettore non specializzato, senza al contempo essere superficiale o annoiare i lettori esperti (e tra il pubblico della spy di questi ultimi ce ne sono parecchi!).Si tratta di riuscire a condensare in poche battute e molto sottotesto decine e talvolta centinaia di pagine di informazioni.
Un altro aspetto molto complicato (ma anche estremamente stimolante) è stato “far parlare” Ahmad Wali Karzai. Dei personaggi che metto in scena, lui è l’unico completamente vero, anche se all’interno del romanzo non lo chiamo mai per nome. Prima di provare a dargli vita ho studiato decine di video e interviste, in modo da assorbirne la gestualità e il modo di parlare.


Nei romanzi di spionaggio c’è sempre un tacito patto con il lettore che prevede il fatto che anche gli eventi più improbabili potrebbero anche essersi verificati ma senza avere copertura mediatica. Anche “Prodigal Son” potrebbe essere accaduto veramente?

Prodigal Son si basa su due premesse assolutamente reali: è storicamente accertato che verso la fine della Guerra Fredda la CIA, servendosi del servizio segreto pakistano come tramite, inviò dei carichi di armi ad Ahmad Shah Massoud, e che alcuni di questi carichi siano misteriosamente svaniti nel nulla. Questa è la prima verità.
La seconda verità è che a un certo punto gli americani si resero conto di aver messo in non si sa bene quali mani armi che potevano colpire anche altri bersagli oltre agli elicotteri russi, e che cercarono di correre ai ripari riprendendosele. Nel caso degli Stinger, in effetti, si offrirono di ricomprarle pagando fior di quattrini.
Tornando a Prodigal Son, se accettiamo come vero il fatto che qualcuno abbia deciso di consegnare agli insorti un agente NBC (nuclear, biological, chemical) poi andato perduto, allora è più che plausibile che l’opinione pubblica sia stata tenuta all’oscuro della missione per recuperarlo.


Come ti spieghi che nonostante la storia afghana abbia dimostrato che chi si illude di vincere in quel brullo e montagnoso paese poi viene poi sonoramente sconfitto, gli americani abbiano peccato di Hybris pensando di riuscire dove tutti gli altri hanno fallito?
Pensi che si tratti di quella che la storica Barbara W. Tuchman chiama la “marcia della follia” (Nella storia, indipendentemente dal luogo e dal periodo, è possibile osservare un fenomeno costante: governi che perseguono politiche contrarie ai propri interessi. A quanto sembra, non esiste praticamente attività in cui l’umanità raggiunga risultati come nell’arte del governo.)?


Non mi considero un’analista politica o una storiografa, ma l’idea che mi sono fatta sull’intervento americano in Afghanistan è che non sia stato gestito con una strategia univoca e di lungo periodo, quanto piuttosto che molte delle decisioni prese abbiano avuto origine in situazioni contingenti, e che abbiano poi generato degli effetti domino disastrosi. E quando parlo di effetti domino mi riferisco al tempo della Guerra Fredda, ben prima dell’intervento a seguito degli attentati del 9/11.


Quali scrittori di spy-stories ti hanno sedotta e ispirata?

Mi avvicinai agli intrighi internazionali da ragazzina, leggendo Clive Cussler. Poi Follett, Fleming, Le Carré, Forsyth e McNab. Tra gli italiani, ho un grosso debito nei confronti di Alan Altieri e Stefano di Marino, ma anche Roberto Costantini e, sul versante più thriller, Sandrone Dazieri.

Il genere giallo ha palinsesti diversi dal genere di spionaggio ma hai avuto l’ispirazione di scrivere un giallo canonico?

No, il giallo classico non fa per me. Mi sento molto più portata a generi in cui l’investigatore si sporca le mani: sono una grande fan della scuola dei duri americana e dei thriller. Mi piacerebbe molto aver scritto La memoria del topo di Connelly, per esempio.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Ci sarà un nuovo romanzo con Emerson Ray?

Prodigal Son è un romanzo autoconclusivo, ma il personaggio di Ray è stato studiato per la serialità. A giorni comincerò a scrivere il secondo episodio, su cui però al momento non posso dire altro: è top secret!
In generale, io e i miei colleghi di Segretissimo stiamo lavorando insieme per (ri)portare alla ribalta la spy italiana. Se tutto va come previsto, nei prossimi mesi sentirete ancora parlare di noi.


Quale romanzo di spionaggio avresti voluto scrivere tu, essendo il compendio delle tue passioni?

Mi sarebbe piaciuto tanto aver scritto “Pilgrim”, di Terry Hayes. E “Pattuglia Bravo-two-zero” di McNab, anche se non è un romanzo ma un racconto biografico.

Ti ringrazio per l’intervista Denise, augurandoti sempre nuovi successi!

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