Intervista a Enrico Luceri




A tu per tu con l’autore


 

L’immagine di Padre Wurth sembra ripresa da un inquisitore vecchio stampo, così rigido e altero riporta la mente all’Inquisizione. Ha avuto un esempio da Pupi Avati per creare Padre Wurth oppure le è venuto spontaneo durante la scrittura un’impostazione simile?

Ho raccolto in padre Wurth aspetti di personaggi della filmografia di Pupi Avati, come i preti soavi e rassicuranti, quasi anonimi in apparenza,  di “Zeder”, “La casa dalle finestre che ridono” e “Il nascondiglio”, che celano in realtà un’indole inquietante, minacciosa e inesorabile. Però gli ho dato il viso e il fisico dell’attore Donald Sutherland nel film “I delitti del rosario”. Ironico, impassibile, freddo, dedito alla sua missione, vera o presunta, padre Wurth forse copre il suo volto con una maschera, che cade solo per alcuni istanti, svelando un uomo più anziano della sua età, stanco e preda di dubbi. E solo la giovane Corinna osserva quest’attimo in cui appare quella che potrebbe essere la sua vera personalità.

Il vizio del diavolo mette il lettore in uno stato di inquietudine dall’inizio alla fine. Ha abilmente mischiato il giallo con un leggero horror per mostrare oscure e torbide trame?

Il regista di un film può contare su mezzi tecnici e artistici come effetti speciali, montaggio delle sequenze, inquadrature (in particolare le soggettive), colonna sonora, ecc. L’autore di un romanzo invece deve costruire un meccanismo narrativo dove la combinazione di ambienti, atmosfere, personaggi e situazioni generano una serie di emozioni che aumentano d’intensità e finiscono per coinvolgere i lettori. I quali si sentono calati dentro la storia, tanto da provare gli stessi turbamenti dei personaggi: inquietudine che al trascorrere del tempo, all’avanzare della notte e del buio, diventa ansia e poi angoscia, paura, terrore, per approdare infine al delirio vero e proprio. Proprio come sostiene il più autorevole esperto del genere, il regista Dario Argento. Credo che la struttura del romanzo sia quella del giallo thrilling, con alcune situazioni al limite dell’horror, dove agiscono personaggi ambigui, che nascondono forse segreti imbarazzanti, e basta uno sguardo, un gesto, una frase, un’esitazione per lasciarne intuire l’indole reale.

Come si fa ad essere originale ed emergere nel mondo del giallo distinguendosi da propabili copie? Come ci si ditingue dal marasma di nuovi scrittori?

Leggo e vedo gialli dalla fine degli anni ’60. Sono stato lettore e spettatore precoce! Migliaia di storie che hanno ispirato la mia fantasia. Scrivo dunque romanzi e racconti dove l’immaginazione cerca di coniugare l’impianto del giallo ortodosso, classico, con la tensione caratteristica della grande stagione del cinema thrilling italiano e noir americano degli anni ‘40. Infatti nel Vizio del diavolo ci sono citazioni di film come “La scala a chiocciola” e “La donna fantasma” di Robert Siodmak, e “La ragazza che sapeva troppo” di Mario Bava, oltre a quelli di Pupi Avati. E poi di commedie e romanzi di Agatha Christie. In sostanza, per me raccontare una storia gialla è il fine. Obiettivo radicalmente diverso da chi usa la struttura narrativa del giallo per raccontare una storia. Espediente legittimo, naturalmente. Ma per costoro il giallo è un mezzo. Questa è la differenza: distinguere il fine dal mezzo. Sono convinto che la parte prevalente dei lettori di gialli si accorga della mia scelta, e spero che l’approvi e l’apprezzi.

Quali sono le letture che hanno fatto di lei un bravo scrittore? E quali influssi cinematografici ha avuto che trasla nei suoi libri e che fanno di loro dei gialli di successo?

Mi auguro di essere considerato tale dai lettori, io mi impegno su ogni romanzo con modestia, discrezione, cura e passione. I miei autori preferiti sono Agatha Christie e in genere quelli del giallo classico all’inglese, come pure Cornell Woolrich e gli esponenti del genere conosciuto come gotico americano. Fra i contemporanei, apprezzo molto Carlene Thompson. La mia videoteca ideale comprende tutta la produzione del cinema giallo thrilling all’italiana, inaugurata e sviluppata compiutamente grazie all’opera del regista Dario Argento, e poi molti film noir americani in bianco e nero degli anni ’40 e ’50. Per me raccontare una storia, significa descrivere ciò che vedo con gli occhi dell’immaginazione. Mi sembra di trovarmi in un set e osservare da regista gli attori scelti da me che interpretano la sceneggiatura che ho scritto. Spero che anche i lettori vivano la stessa sensazione, quando leggono i miei romanzi.

Si è affezionato a dei personaggi ne Il vizio del diavolo? A quali e perché?

Mi affeziono a tutti i miei personaggi, lo ammetto,  ma con un certo distacco. In fondo mi servono, li uso, sono funzionali alla riuscita di una trama. Sono pedine che muovo sulla scacchiera del mio romanzo. Sono attori che dirigo sul palcoscenico virtuale della mia storia. Mi piacciono nella misura in cui “recitano” con efficacia il loro ruolo. Devono uscire di scena al momento giusto. Nel Vizio del diavolo, la giovanissima Corinna diventa spesso la prospettiva da cui i lettori osservano la vicenda. Non è stata una scelta casuale, al contrario. Accade perché in fondo è attorno a lei che ruota la storia, e la ragazza se ne accorge, a una certa ora della notte. Una parte impegnativa, ma secondo me Corinna se la cava egregiamente. È una giovane che conosce la sofferenza, la solitudine, l’incomprensione, le carenze affettive, che si sente perseguitata dal destino e reagisce con la ribellione, la rabbia, il cinismo, e soffocando i propri sentimenti. Ma alla fine è costretta a confrontarsi proprio con il suo bisogno d’amore. Sì, devo ammettere che sono molto affezionato a Corinna. Istinto paterno, che può scattare anche per un autore verso un suo personaggio? Chissà!

Leggendo Il vizio del diavolo sembra al lettore di vedere la storia davanti ai suoi occhi, riesce a vedere un paesaggio buio, non solo per la notte e per il temporale, riesce a visionare le atmosfere spaventose presenti tra le pagine del giallo. Credo che sia la massima aspirazione di uno scrittore nei confronti del lettore. Lei cosa vuole trasmettere al lettore e come vorrebbe che quest’ultimo recepisse i suoi gialli?

Mi interessa condividere con i lettori il meccanismo psicologico della paura come potente incentivo a mettere in discussione equilibri in apparenza solidi e in realtà precari, certezze che si rivelano fragilità, quieti modi di vivere che nascondono e a volte reprimono istinti violenti. Mi interessa condividere con i lettori una storia dove la causa che scatena il delitto è un evento misterioso avvolto nelle nebbie del passato. Un evento rimosso, dimenticato, che all’improvviso riaffiora e condiziona le azioni dei personaggi. Mi interessa condividere con i lettori un movente del tutto particolare: il furto di un’emozione. Rubata, sottratta da genitori inadeguati, fratelli distratti, amanti capricciosi, amici egoisti, compagni di scuola o colleghi di lavoro ipocriti. Di personalità simili è popolata la vita di ognuno di noi. E ognuno prima o poi supera la delusione di un affetto, un amore, un’amicizia traditi per convenienza. Ognuno? No, non tutti. Qualcuno crede di aver superato la sofferenza, ma è solo addormentata in un angolo buio e freddo in fondo alla memoria. Un giorno quel dolore si sveglierà, e avrà cambiato natura. Sarà diventato un trauma. Un grido assordante, una luce accecante, una ferita sanguinante. Per far tacere il grido, per spegnere la luce, per tamponare la ferita c’è un solo modo: uccidere chi ha provocato un trauma. Si dice come sia inevitabile scrivere di ciò che si conosce. E ciò che conosciamo meglio è il dolore.

Domanda di rito per Thrillernord. Ha mai letto dei thriller nordici? Se lo ha fatto ha un autore preferito o più autori? In cosa gli scrittori italiani sono diversi dai nordici anche da un punto di vista televisivo o cinematografico?

Ne ho letti diversi, a cominciare da “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson. Il primo in assoluto credo sia stato “Il senso di Smilla per la neve” di Peter Høeg. Il mio preferito è “Lo sguardo di uno sconosciuto” di Karin Fossum, anche per merito della trasposizione cinematografica italiana “La ragazza del lago” di Andrea Molaioli. Ciò che mi incuriosisce e attrae dei thriller scandinavi o comunque nordici è l’ambientazione in un certo senso sorprendente. C’era scetticismo sulla possibilità che terre così socialmente avanzate, organizzate, fredde come clima (e per alcuni come carattere delle persone) potessero ispirare storie dove non manca la violenza, il disagio, la rabbia, diciamo le passioni in genere, che spesso alimentano i moventi di un omicidio. Gli autori nordici hanno smentito con abilità e bravura questo pregiudizio.

Enrico Luceri

Grazie.

Marianna Di Felice

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