Intervista a Giovanni Bitetto




A tu per tu con l’autore


Complimenti, ti ringrazio per aver accettato questa intervista, per me molto importante perché il tuo romanzo mi ha veramente affascinata. L’ho trovato davvero profondo, per questo definire “Sacro niente” un libro che indaga l’animo umano mi sembra troppo riduttivo, mi sembra quasi di sminuirne il valore. 

Grazie a te! Al contrario, hai toccato il nodo centrale: il mio intento è proprio quello di distillare i tratti fondamentali dell’animo umano e rendere conto della molteplicità delle passioni e delle etiche applicabili a esse. Per fare ciò ho adottato un punto di vista inedito: una pezzo di marmo modellato da mano umana nella forma di un santo. La statua è posta in una villa in cui un’agenzia di pompe funebri celebra camere ardenti, di volta in volta i partecipanti a queste funzioni si avvicinano a essa e raccontano le proprie storie, le ragioni per cui partecipano a tali riti e il rapporto che li lega al defunto. Si tratta di un modo per confrontarsi con se stessi e con il concetto di fine. La statua ascolta queste storie, senza avere possibilità di interagire, e senza avere la tracotanza di giudicare, incuriosita più che altro dalla varietà di pensieri e credenze di queste strane creature umane. Credo che la letteratura al giorno d’oggi possa andare in due direzioni: ragionare sul piano simbolico, innalzando nuovi simboli o demistificandoli, o indagare i valori del nostro tempo, tracciandone le varie evoluzioni. Ho cercato di battere questa seconda strada, postulando vissuti e credenze molto lontani da me e immaginandomi le varie possibili risposte.

Le storie di queste pagine sono le nostre storie, sono molteplici, una diversa dall’altra, con i protagonisti più disparati, ragazzi, donne più o meno giovani, uomini. Sono protagonisti estemporanei che liberano, finalmente, cuore e anima da un macigno. Chi o cosa rappresentano in realtà? 

Ho cercato di portare il vettore della mia scrittura verso l’esterno, sfidando me stesso a empatizzare con figure molto lontane da me, anche solo per sesso ed età, ma soprattutto per vissuto personale e approccio alla vita. Credo che al giorno d’oggi la letteratura debba abbandonare i lidi dell’autoreferenzialità, l’ossessivo racconto dell’io di molti autori contemporanei, e tornare nei territori della finzione, mettendosi nei panni di personaggi lontanissimi. Lo scarto fra se stessi e il mondo è l’universo di possibilità che va indagato, e solo la letteratura, luogo di ponti fittizi, tanto evanescenti quanto potenti, può provare a operare in questo senso. 

Abbiamo parlato di protagonisti estemporanei ma, in realtà, c’è tutta un’altra serie di personaggi, oserei dire, affezionati. Sono personaggi fondamentali per questo romanzo, un paio in particolare, con i loro dialoghi, ci portano a fare delle riflessioni sulla vita non indifferenti. Hai mai pensato di estrapolarli e farne un piccolo libro a parte?

Tra questi personaggi affezionati, ci sono comunque molte differenze. Anche loro non fanno parte dello stesso girone, se così lo vogliamo chiamare. Ce ne vuoi parlare? 

Considero quest’opera un romanzo polifonico: la prima rosa di personaggi è, come detto, quella dei partecipanti alle funzioni, che raccontano la propria ragion d’essere alla statua; poi ci sono gli inservienti dell’agenzia di pompe funebri, lavoratori disincantati abituati a gestire quel microcosmo di ritualità, il loro è uno sguardo obliquo, parlano alla statua quasi da vecchi amici, demistificano la sacralità del luogo. Fra di essi c’è Antonio, l’inserviente preposto alla pulizia della statua, figura che ritorna ciclicamente e che sembra essere l’unico vero portatore di speranza in un contesto abbastanza cinico. Infine c’è un ragazzino, il figlio del proprietario, abituato da sempre a giocare in quel luogo, e dunque per nulla spaventato dalla parentesi del lutto. Il ragazzo immagina che la statua gli possa rispondere, dialoga con essa interrogandosi sul mondo degli adulti e su certe disperazioni che, agli occhi di un bambino, sembrano tanto assurde. Si tratta quasi di dialoghi da operetta morale, piccoli intermezzi filosofici nel flusso degli eventi. Ogni voce però è legata per tematiche e stile all’altra, ogni personaggio si riverbera in un altro, tenendo insieme la polifonia di cui ho parlato poc’anzi, quindi no, non ci sarà nessun libro a parte.

Mi sembra giusto, a questo punto, fare un passo indietro. Le grandi particolarità del romanzo sono, naturalmente l’ambientazione, e l’interlocutore dei nostri protagonisti: la statua di Padre Pio. Avresti potuto scegliere mille luoghi, mille interlocutori, mille materiali. Com’è nata questa scelta? Cosa rappresenta? 

La scelta di un narratore così peculiare ha varie ragioni. L’ambientazione è quella di un Meridione generico, un paesaggio interiore più che effettivo, infatti sono pochi i toponimi indicati nel libro, volevo descrivere l’essenza stessa di un luogo più che il luogo reale. Statue del genere, nel Meridione da cui provengo, sono la normalità: Padre Pio è un’icona che vive fra ardore religioso e diffusione in ambito pop, il distillato perfetto della religiosità kitsch. Mi interessava indagare il rapporto fra l’uomo e l’icona, raccontare un ambito in cui può apparire naturale fare i conti con la propria vita, come può essere appunto una parentesi, un momento morto all’interno di una funzione pubblica, in cui si è posti di fronte a un simbolo che induce all’introspezione. Per intenderci: avrei potuto ambientare le medesime storie fra i vicoli di Napoli e metterci, al posto della statua, un murale di Maradona. In più volevo un narratore che fosse totalmente estraneo a ciò che viene raccontato, e volevo sfidare ancora una volta la mia scrittura. Ho scelto di immedesimarmi in un blocco di marmo, qualcosa di assolutamente fuori dall’umano, raccontando, in una serie di capitoli dedicati, la lavorazione della statua. Da mano umana si è generata l’icona, è l’uomo che attribuisce alla statua la santità che essa stessa è conscia di esercitare. 

La tua è una scrittura che scorre velocemente ma comunque molto ricercata, quali sono gli autori o le correnti a cui ti sei ispirato?

Non posso indicare autori in particolare, credo che nell’atto di scrivere si riverberino, in misura maggiore o minore, tutte le influenze a cui si è stati esposti, quindi tutto ciò che si è visto e letto. In gioventù ho divorato molti autori nordamericani, per poi passare agli italiani e agli europei, credo quindi di avere una cassetta degli attrezzi abbastanza ampia da cui, di volta in volta, traggo l’arnese che considero adatto al caso. Ho una predilezione per il flusso e amo saturare la pagina con un muro di parole, quindi viro spesso  sullo stile paratattico. Ma non riesco a razionalizzare ulteriormente le mie influenze. 

Il libro che stai leggendo o hai sul comodino in attesa di lettura.

Mi sento di segnalare due libri che ho finito di recente, che mi hanno stupito per freschezza e profondità autoriale. Il primo è Il cerchio perfetto di Claudia Petrucci, una storia dalla trama esile e rarefatta, condotta magistralmente in un universo distopico molto prossimo. Il secondo è Amico mio di Gianmarco Perale, un romanzo dallo stile peculiare, delicatissimo e riconoscibile, che narra in maniera vivida e minuziosa l’amicizia fra due ragazzi, impressionando per la resa coerente del microcosmo infantile; sicuramente è uno dei libri che mi ha stupito di più negli ultimi mesi. La letteratura italiana è in buone mani, per fortuna non sono le mie.

A cura di Patrizia Argenziano

Acquista su Amazon.it: