Intervista a Giovanni Floris




A tu per tu con l’autore


Intanto complimenti. E’ il tuo primo libro che leggo e confesso che mi è piaciuto molto. Alla fine riveli come nasce questo romanzo, ovvero da una domanda che ti sei posto ai tempi di Ultimo banco. Vuoi raccontarcelo tu?

La domanda è: “E se a un certo punto gli insegnanti si ribellassero?” Diciamocelo: ne avrebbero tutte le ragioni. Fanno un lavoro sempre più difficile, in prima linea, pagato in modo inadeguato rispetto all’impegno e alle responsabilità che comporta. Vivono la frustrazione di una società che valorizza sempre meno la cultura di cui sono portatori. E se decidessero di fare qualcosa? Anche con le maniere forti, se necessario? Da questo piccolo rovello si è sviluppata poi una trama piena di svolte narrative come quella del Gioco.

L’istruzione italiana è un tema caldo e in questo libro pungoli un po’ tutti, istituzioni, il programma, i professori, gli studenti e la società. Ce n’è per tutti, ma non sembri attribuire particolari colpe alle famiglie di Momo o di Francesca, addossandole piuttosto alle istituzioni e società. Come mai? Stessa cosa sembri fare anche quando parli di Francesca e del fatto che è fascista. Lo è anche il padre e la madre e le persone del suo quartiere che la circondano. Lo accetti, come se non fosse colpa loro ma un ovvio epilogo per chi vive in quell’area di Roma.

Non è una questione geografica, è una questione generazionale, e non per niente il professor Romano sa bene che se avesse scelto di insegnare in un liceo del centro non gli sarebbero per forza capitati studenti più “illuminati”. Francesca, come tanti suoi coetanei, il fascismo non sa nemmeno cosa sia, si limita a cercare di riempire un vuoto. Ecco, la “colpa” se mai è il fatto che quel vuoto, nella vita dei giovani, si sta allargando. E’ un vuoto determinato anche (ma non solo) dal vuoto culturale. Però, come dice Romano a Francesca, la responsabilità di come riempirlo è loro, dei ragazzi: perché non è vero che lei ha scelto il fascismo perché “c’era quello”. Un tratto di Romano che apprezzo è che è contrario al paternalismo con cui trattiamo i ragazzi, che non sono vasi da riempire o esseri poco senzienti da accudire. Sono persone con una volontà, responsabili delle loro scelte, che sono individuali e si possono sempre fare, anche da giovani. E anche andando controcorrente, anche con fatica: si può scegliere di istruirsi, di amare la cultura… magari con qualche aiuto, e proprio questo è il ruolo che svolge il Gioco.

Con questo libro scagli diverse frecce per invitarci a riflettere. La più avvelenata è sempre quella nei confronti dell’estrema destra, cosa che non riesci a nascondere nemmeno in tv. C’è un punto nel libro in cui il professor Romano viene accusato di essere di sinistra per zittirlo e lui si infervora, perché non si sente nemmeno di sinistra. Quanto c’è di te nel professore?

C’è qualcosa di me in tutto i personaggi, è ovvio. Nel professore, ma anche nei ragazzi. Forse soprattutto in loro. E non credo di scagliare frecce, rifletto piuttosto sui fenomeni sociali, quello sì. Lo fa anche Romano. Romano, come me, è allergico alla retorica, al bisogno di rassicurarsi che si ha ragione intruppandosi in qualche macro-categoria. Sono cresciuto negli anni Ottanta, e mi piace pensare che – magari oltre a un po’ di superficialità – quell’educazione ci abbia trasmesso anche un certo pragmatismo, la voglia di non accontentarsi della retorica e delle frasi fatte ma di andare a vedere come stanno le cose. Per questo il Gioco è una caccia al tesoro: la caccia a una ragazza scomparsa, innanzitutto, ma anche la caccia all’ispirazione, al libro capace di cambiarti la vita, al pensiero che non ti aspettavi. Tutti gli estremismi, di destra e di sinistra, e tutti i populismi sono il contrario di questa caccia: perché se ti muovi immerso in un branco, come i turisti che scendono dalle navi da crociera, non la troverai mai l’idea giusta proprio per te.

Poi ne scagli una bella e polemica anche contro le televisioni. La cosa mi ha fatto sorridere essendo che prima che come giornalista e autore, sei conosciuto per essere il conduttore di Ballarò. Fenomeni come il professor Pastore ne vediamo anche nella tua trasmissione. Immaginando che non si possa raccontare più di tanto, quanto è difficile gestire un dibattito politico quando si ha di fronte soggetti che ragionano di pancia per catturare applausi come il Pastore? Quanto dà fastidio sentire e vedere l’approvazione del pubblico per il Pastore e non poter replicare? Quante volte ti capita di voler prendere e sbattere la porta come fa il Romano, ma non puoi farlo perché è il tuo programma?

Non mi capita mai. Faccio il giornalista e non solo il rispetto per tutte le opinioni è un dovere professionale, ma il libero gioco delle opinioni è il cuore di DiMartedì, come lo era dei programmi condotti in precedenza. Non siamo lì per ammannire al pubblico una nostra qualche verità, ma per aiutarlo a farsi un’idea, criticandole tutte.

E’ cambiato il modo di comunicare, ma anche il modo di recepire le informazioni. E questo è un altro punto del tuo libro. Non a caso il professor Romano dice ai ragazzi di stare attenti a chi offre chiavi di lettura perché ci sono i saggi e i truffatori. Sempre più spesso capita che tra due interlocutori, sembra che non diamo ragione a chi argomenta con calma mostrando la sua conoscenza, ma quello che sbraita e urla. Colui che argomenta è ormai diventato il professore saccente come il Romano ed invece di ammirarlo ed imparare da lui, ci buttiamo sui Pastore. Il problema siamo anche noi che abbiamo il potere di decidere a chi dare ascolto e forse, non sappiamo più gestirlo. Perché secondo te e come si può recuperare la capacità di ascolto?

Mettendosi in ascolto. Cominciare da sé è sempre una buona idea. Poi, se abbastanza persone vogliono cambiare le cose, le cose cambiano.

Attraverso il botta e risposta tra il professor Romano ed il Pastore, ti sei tolto qualche sassolino che il tuo ruolo televisivo non ti permette?

In quelle pagine mi sono divertito a mettere in gioco e a confronto due personaggi che, oltre a se stessi, rappresentano due tipi umani e due modi di vedere la professione del docente. Pastore è un belloccio vanesio che si considera, a torto, più importante rispetto al ruolo di insegnante che ricopre, e finisce con il diventare un cattivo maestro. Romano, al contrario, dalla responsabilità del suo ruolo è quasi schiacciato e badate bene, questo non fa di lui un insegnante migliore perché lo porta a rifugiarsi nel suo mondo, a fare molto meno di quanto potrebbe. Non è che uno sia “buono” e l’altro “cattivo”: sono entrambi difettosi, come lo siamo tutti noi nella vita. In quel loro dialogo vorrei suggerire una domanda: cosa significa trasmettere sapere e che tipo di sapere è degno di essere trasmesso? Non sono io a rispondere: se il testo fa il suo lavoro, risponderanno i lettori. 

Penso che questo libro sia adatto a tutti, purché lo si affronti con il giusto spirito, quello dello studente che ha voglia di imparare. Si legge molto bene perché le parti culturali sono ben accoppiate con una buona trama ricca di spunti di riflessione, dialoghi simpatici e anche spiegazioni semplici date dai professori ai ragazzi. Culturalmente molto ben fatto, a tratti non nascondo che mi ha fatto sentire ignorante, nel senso buono del termine ovviamente ed in altri ha riacceso la memoria su argomenti studiati a scuola e poi abbandonati, ma che non sono ancora perduti. Esattamente come se fossi tornata sui banchi di scuola all’ultimo anno. E’ un effetto voluto?

Io sui banchi di scuola ci sono tornato! Per scrivere questo romanzo sono andato per un anno ogni settimana a lezione da mia madre, ex prof di lettere. Mi ha fatto un “ripassone” di tutto il Novecento, uscivo sentendomi ignorantissimo e abbastanza fuso, ma anche pieno di energie e di spunti, non solo sulla letteratura ma su idee, punti di vista, prospettive. Alla fine è come quando vai in palestra: magari ti fanno male i muscoli, ma ti senti soddisfatto e in uno stato d’animo positivo. Questo è quello che vorrei il romanzo trasmettesse, anche al di là del divertimento, spero, della trama e dei colpi di scena: i libri e la cultura migliorano la vita. Possono aiutarti a essere più bravo nel lavoro, a capire meglio persone e situazioni, ad avere più amici ed essere più felice. E a combattere la solitudine, perché i libri non sono qualcosa di cui si parla ma qualcosa con cui si parla. 

In giro per il web, infatti, ho trovato qualche inevitabile critica. C’è chi lo considera “pesante” e dichiarano di averlo mollato dopo appena 50 pagine. Cosa direbbe loro il professor Romano?  

Direbbe: “Mollalo subito. Mettilo sullo scaffale più alto. Lo troverai lì quando, in un altro momento, avrai bisogno esattamente di questo libro”. 

A cura di Giulia Manna

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