Intervista a Giuseppe Manfridi




A tu per tu con l’autore


 

Caro Giuseppe, innanzitutto Le porgo i complimenti per aver creato un’opera letteraria eccellente. Per me è un grande onore poterLa intervistare. Prima di parlare del suo libro ci parli un po’ di Lei. Quando ha intrapreso la carriera di scrittore e cosa scriveva all’inizio?

Molto presto. Le mie prime composizioni di carattere per lo più poetico, sono nate intorno ai tredici/quattordici anni ambiziosamente ispirate da variegate letture che hanno molto suggestionato la mia adolescenza e che andavano dall’amatissimo Leopardi e dai testi di Bob Dylan a Ginsberg e a Rimbaud. L’unico narratore che da ragazzo leggevo avidamente era Edgar Allan Poe, sino alla precoce scoperta di Shakespeare, avvenuta attorno ai sedici anni. Aprire quei volumi recuperati, un giorno qualsiasi e quasi per caso, dalla biblioteca del salotto (dove raramente entravo) ha significato una vera rivoluzione copernicana nel mio immaginario. Per me, figlio unico e poco provvisto di compagni coetanei con cui spartire le ore della giornata, sicché incline a inventarmi mille giochi per scongiurare la noia, l’idea di poter creare mondi abitati da personaggi immediatamente provvisti di una loro anagrafe e di una loro fisionomia da immettere in uno spazio concreto  tramite la forza deflagrante della loro fisicità e delle loro voci,  mi ha spinto verso quella prodigiosa forma di invenzione che è la scrittura scenica. Ho potuto così fiutare la sconcertante possibilità di creare, come dice William Saroyan, a una mia personale ‘specie umana’. Dopodiché, per oltre un paio di decenni, tutto quello che ho scritto ha preso esclusivamente forma di testi teatrali e, in alcuni casi, di sceneggiature. Quindi, superati da poco i quarant’anni, con “Cronache dal paesaggio” e “La cuspide di ghiaccio” è infine iniziata la mia avventura nella narrativa.

A quale genere letterario appartengono i libri che legge o che ha letto in passato? Quali sono i suoi autori preferiti?

In parte ho risposto in precedenza, ma mi piace ribadire quanto già detto. Gli autori che hanno aperto in assoluto la mia anima alle meraviglie della Letteratura sono stati Shakespeare e Poe. Quindi, negli anni a seguire, molti altri nomi si sono aggiunti ad aprirmi, se non più l’anima, senz’altro il cervello, con la capacità a volte di rimodellarlo. Sennonché, il succedersi delle età e i molteplici eventi personali hanno avuto una grande parte nel far sì che scrittori diversi potessero, in tempi disparati, influire sulle scoperte che andavo facendo degli esseri umani e della vita. L’impatto con Elias Canetti (in particolare con i tre volumi della sua autobiografia) è stato, ad esempio, sconvolgente. Avevo più o meno vent’anni, e già Dostoevskij stava penetrando a fondo nella mia coscienza imponendomi riletture continue, spesso assillanti, dei suoi romanzi. Poi Čechov, Strindberg, Ibsen, il filosofo Wittgenstein, l’esplosivo London, e Joyce, che mai allontano dalla mia scrivania. Tra i poeti che più mi hanno accompagnato nel corso degli anni cito Montale, Celan e lo slavo Holan, la cui scoperta debbo all’autore a cui ho dedicato la mia tesi di laurea in un lontano passato (per consacrargli, al presente, un intero scomparto della mia biblioteca): Angelo Maria Ripellino.

Leggendo il suo magnifico scritto ho percepito piacevoli sensazioni che custodirò per sempre nell’animo. Da amante della letteratura classica ho apprezzato il romanzo poiché entrare nella vita di uno scrittore attraverso un encomiabile stile narrativo è un’esperienza affascinante. Le chiedo, pertanto, com’è nata l’idea di dedicare un libro al mitico autore di romanzi Fëdor Michajlovič  Dostoevskij?

In realtà, l’ho dedicato soprattutto ad Anja, alla piccola Anja. È lei la vera protagonista del romanzo, è la sua storia questa, e perlomeno lo è nei termini in cui ho voluto immaginarla, ma non c’è dubbio che nell’interezza dell’opera lo figura di Dostoevskij abbia una grande parte. L’idea ha radici antiche, e origini quasi aneddotiche. Vivevo allora a Parigi con Carlotta, la mia cara prima moglie. Avevamo da poco preso casa nel Marais (un quartiere di grande fascino, per certi versi dai sapori dostoevskjani), e per qualche giorno, a causa di lavori di ristrutturazione, io e Carlotta siamo ospitati dallo scrittore Sergio Ferrero, che abitava non distante da noi. Per dormire, Ferrero mi mette a disposizione un lettino sovrastato da pareti colme di libri. Io, prima di addormentarmi, sollevo il braccio e, del tutto a caso, tiro via il primo volume che capita sotto mano. Si trattava della vetusta edizione Bompiani del diario di Anna Dostoevskaja, un’opera di cui ancora non sapevo nulla. Sfoglio le prime pagine, e malgrado il prosieguo sia un susseguirsi non proprio vivace di lutti e di pratiche quotidiane, la prime pagine mi fanno sobbalzare. L’oggettiva forza del fatto in sé – mi riferisco alle modalità del formidabile incontro della piccola stenografa Anja Grigor’evna Snitkina col titanico scrittore idolatrato dal padre di lei (morto da poco), nell’emergenza di un romanzo da scrivere per intero entro un mese – mi suggerisce la possibilità di cavarne una narrazione in grado di toccare temi cruciali nella mia visione del mondo: dalla pervasione reciproca al mescolarsi di due temperamenti tanto diversi per estrazione e soprattutto per età; dal nascere taciturno di due diversi amori che non hanno il coraggio di pronunciarsi vicendevolmente rischiando addirittura di svanire, sino al compiersi di una coniugalità raggiunta a dispetto dello scandalo che avrebbe voluto osteggiarla. In verità, da quella sera nel Marais (parliamo del ’90) sono passati molti anni prima che questo spunto si traducesse, intorno al 2000, dapprima in una commedia e poi, dopo altri diciannove anni, nel romanzo che infine ho scritto.

Ha descritto le scene con maestria tramite un sorprendente coinvolgimento emotivo e un effetto scenografico indimenticabile. Credo che alla base ci sia una buona preparazione essendo lei, oltre che uno scrittore, anche un autore teatrale. Mi è piaciuto in particolare quel passaggio dove lo scrittore ha una crisi epilettica e la giovane Anja si trova nella situazione di doverlo assistere. È uno di quei momenti drammatici che mi ha resa emotivamente partecipe. Tutto ciò per dirle che il libro essendo scritto con padronanza nella descrizione delle scene lo ritengo un’ottima sceneggiatura per un film. Secondo lei è possibile che questo si possa realizzare? Glielo auguro di cuore.

Sì, è vero. D’altronde, parallelamente alla commedia, una sceneggiatura a suo tempo l’ho già impostata, e, malgrado i molti anni intercorsi da quando ho elaborato lo script per un possibile film e la stesura del romanzo, quella sceneggiatura ha costituito il fil di ferro strutturale del processo narrativo che ha portato infine alla nascita di “Anja, la segretaria di Dostoevskij”. D’altra parte, la mia maniera di scrivere non può non essere influenzata, oltre che dai libri che ho letto, anche dai tanti film che ho visto. Io credo che sia impossibile oggi, per uno scrittore, affrontare una pagina prescindendo da quella devozione quasi istintiva al dettaglio che le immagini cinematografiche ci hanno abituato a vivere come un’ovvietà interna al racconto proposto. Certo, nel caso di Anja questa disponibilità del romanzo a essere tradotto in qualcos’altro (penso appunto a un film, ma anche a una possibile serie televisiva) sembra particolarmente evidente (e, sia chiaro, sarei felice se ciò avvenisse). Tuttavia, ci tengo a dire che questo romanzo non vuole essere anticamera di nulla, e che, creativamente, io lo intendo come un atto conclusivo e compiuto.

Ha delineato gli ambienti dettagliandoli in modo preciso e minuzioso. La sua capacità di far immedesimare il lettore nei personaggi e di creare l’atmosfera di quel tempo sono stati davvero sublimi. Come ci è riuscito? Ha visitato personalmente i luoghi citati nel romanzo?

Sì. Due anni fa ho fatto un viaggio a Pietroburgo che si è rivelato in questo senso importantissimo. Ad accompagnarmi, la mia compagna, Oksana Rab, che di quella cultura sa tantissimo e che da anni mi è assai vicina e complice in tutto ciò che faccio e che progetto. Inoltre, a Pietroburgo abbiamo avuto modo di conoscere una straordinaria guida, diventata in seguito un’amica di entrambi, Irina Cherkasova, che ci ha molto aiutato a conoscere a comprendere la città nel segno che più mi premeva per tornare alla storia di Anja convincendomi in via definitiva a trarne un romanzo. Non per nulla, in appendice al libro cito esplicitamente Irina avendo voluto inserire l’immagine di un bigliettino dove, prima di salutarci, lei ha voluto tracciare, secondo la nuova toponomastica cittadina, la mappa dei luoghi di ‘Delitto e castigo, altrimenti per noi irrecuperabili. Aver potuto addentrarmi così bene nel quartiere della Sennaja (il più dostoevskjano tra tutti i quartieri di Pietroburgo) ha significato senz’altro un incentivo formidabile al giusto transfert per affrontare la mia opera.

“Anja la segretaria di Dostoevskij” è un romanzo ben documentato, si nota che alla base vi è stato un accurato lavoro di studio e di ricerca. Come ha iniziato le sue indagini a riguardo? Ci racconta un po’ di questa esperienza da ricercatore?

Vorrei chiarire: io non sono né un filologo, né, per natura, uno studioso, né, in generale, un topo di biblioteca. La fantasia, in me, prende sempre il sopravvento, anche se una volta sbrigliata mi impongo sempre l’obbligo di irreggimentarla in ossequio all’etica della veridicità. Insomma, non intendo certo scrivere menzogne; semmai, per contro, mi consento da autore, di immaginare e di dire ciò che avrebbe comunque potuto essere, purché ciò non contraddica lo svolgersi dei fatti acclarati. In pratica, la massima parte della mia cosiddetta ricerca documentale è in questo caso da ricondursi sostanzialmente alla rilettura ossessiva di Dostoevskij. La sensazione, per un verso, di essere entrato in profonda confidenza con lui, e, per un altro, la presunzione di avere una certa consapevolezza della materia ineffabile da cui è animato lo spirito di una fanciulla in crescita (il romanzo, lo sottolineo, è molto al femminile) mi hanno spinto con poche remore verso questa sfida emozionate, ossia quella di non ingannare la verità biografica sostanziale sia di Dostoevskij che della Snitkina (da me tradotta nella mia Netočka!), cercando però di recuperare tutti gli spazi in cui avventurarmi al fine di impiantarvi le fondamenta di un testo da poter offrire al lettore con le caratteristiche di un autentico romanzo, che, nello specifico, vuole assumere la forma evidente di una grande storia d’amore.

C’è qualcosa che non Le ho chiesto ma che ci tiene a dire?

Le domande erano talmente pertinenti che aggiungere dell’altro sarebbe solo un indulgere alla prolissità. A questo punto, grazie da me, e dalla piccola Anja!

Giuseppe Manfridi

La ringrazio per aver dedicato il suo tempo a ThrillerNord – Associazione Culturale.  È stato un onore poterla intervistare. Congratulazioni ancora per la sua carriera di scrittore e di autore teatrale.

Manuela Moschin

 

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