Intervista a Katia Tenti




A tu per tu con l’autore

A cura di Cinzia Passaro


Ho letto Resta quel che resta in una sola giornata, ho amato molto questo romanzo tanto da voler sapere ogni cosa dell’autrice Katia Tenti di cui ho apprezzato lo stile sentendolo molto vicino a me, ancora prima di scoprire che appartiene alla mia stessa terra, i temi trattati mi hanno profondamente conquistata e spero di poterla conoscere personalmente la prossima volta che verrà in Salento.

Chi è Katia Tenti? 

Sono nata a Bolzano ma fin da piccolissima, ancora in fasce, trascorrevo lunghissimi periodi a Mesagne perché mia madre, Anna, è originaria del paese dove ancora oggi vivono i nostri famigliari. Ho frequentato le scuole nella mia città natale, ma alla fine di ogni anno scolastico tornavo al paese dove trascorrevo tutta l’estate a casa dei miei zii. Quelli per me erano i mesi più felici dell’anno. Mi sono poi laureata a Trento dove ho avuto modo di approfondire i fenomeni di devianza sociale. Mi occupo da sempre di cultura: teatro, arte contemporanea e scrittura. 

Il romanzo si apre con Max, un bimbetto che ha uno scontro con un bue, un incidente che serve a giustificare la diversità di questo protagonista, affetto da autismo, malattia sconosciuta a quei tempi e per questo considerato matto, il che non scusa i comportamenti della madre anaffettiva. Max adulto è l’unico che mantiene la sua purezza in un contesto dove tutti sono colpevoli e nascondono qualcosa, chi o cosa ti ha ispirata questo personaggio?

Max è un personaggio che ho amato io stessa, da subito, man mano che prendeva vita prima dentro e poi fuori di me. Ti confesso che ho sempre nutrito una grande attrazione per tutto ciò che “è diverso” in qualche modo. Sono le differenze che mi hanno sempre incuriosito, molto più delle affinità. Lavorando nell’ambito sociale ho avuto occasione di comprendere a fondo che il tema della diversità esiste solo nella nostra testa. E che se solo avessimo la sensibilità di metterci in ascolto, potremmo scoprire quanta bellezza si nasconde dietro a ciò che alla superficie appare incomprensibile. Il rifiuto genitoriale, poi, non è un fatto così raro anche se per ragioni diverse. Nel caso di Max, sua madre non accetta un problema che non sa identificare in quanto all’epoca l’autismo era sconosciuto. 

La protagonista Else Steiner è una cantante, si parla di musica interrotta dal rumore della guerra e con essa la Storia con la S maiuscola fa da palcoscenico; a svolgere la matassa dei fatti un episodio brutale che reggerà i fili di tutta la storia: la sparizione delle due gemelle nate da poco. Quanto lavoro c’è dietro la costruzione di questo romanzo in cui anche il teatro di Bolzano ha un ruolo da protagonista?

Mi piace che tu abbia usato la parola “costruzione” di un romanzo perché è esattamente di questo che si tratta. Progettare e scrivere un romanzo di questo genere – e i libri in genere, a mio avviso! – è come costruire una casa: occorre non solo un’idea, ma un progetto e un disegno architettonico precisi, fondamenta solide e pilastri altrettanto saldi perché l’opera deve stare in piedi dall’inizio alla fine. Per fare questo ci vuole tanto tempo, dedizione, passione e molta tecnica. Ho passato mesi solo per le ricerche storiche, che nel romanzo di genere “saga famigliare storica” deve essere preciso e puntuale. E poi tutto il resto…insomma, un impegno importante. Ma io amo farlo. 

Resta quel che resta è un romanzo corale che racconta di sei famiglie culturalmente diverse, appartenenti a mondi differenti: i tedeschi e i “Walschen”, gli stranieri ovvero gli italiani, quest’ultimi alla ricerca di una patria. Una storia di confine e di coraggio, dove tutti sono costretti loro malgrado a convivere e in cui gli italiani non fanno una bella figura. Come può esistere un concetto di patria in una terra rubata e derubata come lo è stato il Sudtirolo?

È questo il cuore della faccenda, il tema di fondo del romanzo: la convivenza pacifica nonostante le differenze, i torti subiti e le ragioni reciproche. Gli italiani che sono venuti in Sudtirolo chiamati dalla propaganda fascista dell’epoca sono una realtà, ma non dimentichiamo che si trattava per la maggior parte di persone che immigravano in questa terra per necessità, per bisogno estremo. Molti di loro non avrebbero certo lasciato la terra di origine e dunque la “patria” per andare altrove. La pace è stata frutto di un percorso lungo e doloroso compiuto da entrambe le parti, per il bene comune. Oggi parlare di patria potrebbe far sorridere: i confini si sono ampliati così tanto e siamo cittadini dell’Europa. Ma deve comunque far pensare sempre e ancora il fatto che l’uomo è alla ricerca eterna di un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, e di comune. 

I pugliesi, i toscani e i veneti, le famiglie italiane protagoniste provengono da tre regioni tanto diverse tra loro, perché hai scelto proprio queste?

I veneti sono tra i primi italiani immigrati in Sudtirolo, poi sono venuti gli altri. Li ho scelti dunque per ragioni di realtà storica da un lato, ma non solo. La mia famiglia paterna è di origine toscana, mentre quella materna pugliese. Sono caratteri che conosco molto bene quindi, e che sentivo nelle mie corde. E poi volevo omaggiare le mie stesse origini, perché la mia famiglia ha sofferto molto durante il fascismo e anche dopo, e volevo far ascoltare ai lettori anche le loro voci. 

Come si vive ora a Bolzano e in tutto l’Alto Adige? Gli italiani, che pur hanno contribuito con il loro lavoro a ricostruire questa terra, che ruolo hanno oggi? Possono dirsi fratelli con una stessa identità? 

L’Alto Adige – Sudtirolo – è una terra dove in generale si sta bene, questo è un dato di fatto. Gli italiani delle nuove generazioni credo abbiano ormai superato le barriere dell’epoca perché sono cittadini del mondo. Ma per il resto, posso dire che statisticamente la popolazione di madrelingua italiana ormai è scesa sotto il venticinque percento, dunque conta sempre meno persone. “Fratelli con una stessa identità” non credo: la cultura è comunque diversa di fondo, anche se una nuova è venuta a crearsi, soprattutto con tutte le nuove popolazioni immigrate. Ormai la società è davvero molto fluida. 

Fosse per me andrei avanti con altre domande, per una questione di spazio mi fermo qui, facendo i miei complimenti all’autrice, che pur coinvolta in quanto bolzanina di terza generazione, ha saputo essere neutrale nel racconto dei fatti di una pagina di storia ancora oggi difficile da spiegare. Grazie Katia.

Grazie a te, è stato un piacere ed un onore essere ospitata sul vostro bellissimo portale! 

                                                                                                                                                     

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