Intervista a Margherita Oggero




A tu per tu con l’autore


Innanzitutto, bentornata nelle librerie con quest’ultimo romanzo, “Brava gente”, che è come sempre una lettura godibilissima che ci fornisce infiniti spunti di riflessione. 

Il suo primo romanzo è stato pubblicato quando lei aveva già raggiunto un’età piuttosto matura, ci vuole raccontare questo percorso? Ho ipotizzato che molte storie fossero state scritte in anni precedenti, ma che non fossero state date alle stampe perché l’attività di insegnante, svolta con passione, fosse emotivamente così coinvolgente da lasciare solo piccoli spazi da dedicare ad altre attività.

Ho lavorato alla RAI, centro di produzione di Torino, e mi sono occupata di programmi radiofonici, scrivendone un paio; ho scritto copioni per spettacoli di Suono e Luci; collaborato alla stesura di una grammatica italiana per la scuola media; insomma mi sono esercitata in vari tipi di scrittura, ma alla narrativa mi sono dedicata solo dopo la pensione.

I suoi romanzi propongono carrellate di personaggi che rappresentano una fotografia dell’Italia degli ultimi vent’anni, un discorso spesso corale che, sin dalla pubblicazione del primo romanzo, abbraccia un po’ tutte le classi sociali, sempre tutte le età e, da ultimo, anche i tanti diversi luoghi d’origine, caratteristica che si va accentuando in una realtà come la nostra, che diventa sempre più multietnica. Il mondo della scuola rappresenta un osservatorio privilegiato per testimoniare dei cambiamenti che si stanno verificano nella nostra società. Lei come riassumerebbe il percorso che c’è stato dalla pubblicazione, nel 2002, de “La collega tatuata” sino ad arrivare al mondo di Barriera di Milano (TO) dove è ambientato “Brava gente”? 

In poco più di 20 anni i cambiamenti hanno subito un’accelerazione vertiginosa. A parer mio, e non solo mio, la rivoluzione digitale e le sue conseguenze, insieme con la concentrazione di ricchezze in gruppi finanziari sovranazionali sono paragonabili per ampiezza e incisività alla rivoluzione industriale. La scuola ne è rimasta toccata. Ha perso in parte (in certi casi del tutto) la sua funzione educativa e annaspa nella didattica, cioè nella capacità di trasmettere il sapere. Le varie riforme che si sono susseguite hanno avuto lo stesso effetto dei papin an s’ na gamba ‘d bosc (impacchi su una gamba di legno) quando non sono state addirittura nocive. Sin quasi alla fine del secolo scorso la famiglia, la scuola, l’oratorio, la pratica sportiva costituivano un modello educativo abbastanza concorde, poi la loro autorevolezza è stata via via sostituita dai social.

Oggi l’attenzione alle problematiche giovanili è come sempre latitante. L’evasione scolastica nelle fasce socialmente più fragili ne è la logica conseguenza, così come i danneggiamenti, i furtarelli e i piccoli atti di teppismo attuati da adolescenti annoiati a cui nessuno ha proposto modelli interessanti o scopi da raggiungere. Anche i giovani protagonisti di questo romanzo non sfuggono a questa realtà, Che tipo di futuro possiamo immaginare per questi giovani, e cosa si potrebbe fare per aiutarli?

Tanto per cominciare, bisogna reperire risorse. Investire nella scuola (edifici, stipendi, attrezzature, orari, programmi ecc.). Investire nelle periferie. Nel decoro urbano. Reperire risorse come? Facendo pagare le tasse, a tutti, senza sconti ed eccezioni per gli amici della classe dirigente al potere.

Debby, sua madre Linda e la vedova Caterina sono donne che rappresentano tre generazioni a confronto: Linda evade da un quotidiano deprimente ignorandolo e rifugiandosi nella lettura; Caterina è ai tempi supplementari della sua vita e sa che non ha altra scelta se non combattere; Debby, infine, vacilla, esita, ma già presentiamo che, abbandonata l’idea scellerata di compiere un omicidio, riuscirà a dare una svolta alla propria esistenza, magari riprendendo gli studi.  Le risorse per uscire da una situazione penalizzante sono sempre dentro di noi, ma anche il contributo degli altri è essenziale. Per Debby sembra sia stato fondamentale assistere alla “liberazione” di Caterina, è corretto?

Per Debby è stata essenziale non solo Caterina, ma anche la lettura su un giornaletto delle vicende di Lana Turner.  La parola scritta lascia sempre un segno, fa riflettere anche controvoglia. Anche quando non è di Proust o di un grande della letteratura. 

In questo romanzo le figure maschili che sono nella fase intermedia della loro vita sono impulsive e irrazionali, spesso ossessionate, dominate da problemi pratici che loro stessi hanno causato e conseguenti angosce esistenziali. Assai meglio gli anziani – irresistibile il vecchio spasimante di Caterina – o i ragazzini, come il tenero Florian che aiuta la nonna e desidera solo una vita normale, (e per il quale incrociamo le dita sperando che, nonostante le cattive influenze che lo circondano, il suo futuro sia felice). È la competizione della vita adulta a far sì che questi uomini siano così tormentati? Essere in un contesto da “perdente”, come può essere la periferia un po’ degradata di una grande città, è più difficile per gli uomini che per le donne? 

Le donne hanno un’intelligenza e un approccio diverso alla vita (non superiori o inferiori a quelli degli uomini!). Probabilmente il sottofondo della cultura maschilista ancora presente rende più difficile per gli uomini accettare le sconfitte e sentirsi perdenti, perché la sconfitta (come le lacrime) non è contemplata nel vecchio codice maschile.

Torino nelle sue mille sfaccettature è quasi sempre presente nei suoi romanzi. Come è cambiata la città dall’epoca de “La collega tatuata”?

Torino è molto più multietnica, con tutto il positivo e il negativo che ciò comporta nella convivenza. 

Ringrazio per l’attenzione e da lettrice ringrazio anche per le belle storie che ha immaginato per noi e che ci hanno regalato ore di svago ma anche di riflessione.

A cura di Agnese Manzo

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