Intervista a Paolo Nelli




A tu per tu con l’autore


 

Il terzo giorno. La prima indagine del commissario Colasette è il primo libro della serie con un nuovo protagonista. Come è nata l’idea, l’esigenza di creare una nuova serie che si inserisce a pieno titolo nel panorama del genere giallo?

Tutto è nato da un’immagine: un giovane, che nessuno conosce, trovato morto, con due ali disegnate sulla schiena, accanto a un crocifisso. Mi viene da dire che il giallo è venuto a cercarmi, perché non trovavo altri modi per potermi liberare da quella scena che, per me, conteneva una grande forza letteraria e evocativa, se non costruendoci un caso e dei personaggi per potergli dare un senso. Credo che il limite e, insieme, la forza dei romanzi di genere sia proprio questa: dare un senso. È un po’ consolatorio che alla fine ci sua una spiegazione, un senso alle cose. Quella del romanzo di genere l’ho sentita da una parte come una sfida personale per provare a me stesso di esserne capace. Dall’altra c’era anche il desiderio di dare del mio a questo genere giocando appunto sul lato poco consolatorio della spiegazione finale. Aggiungo anche che la mia ambizione era quella di scrivere un buon romanzo prima che un romanzo di genere. Mi fa molto piacere che molti abbiano scritto sottolineando la natura del romanzo, appunto, di “giallo letterario”.

Colasette nonostante stia cercando da anni di spedire la lettera di dimissioni dalla polizia è molto dedito al suo lavoro, ci mette anima e corpo e pretende dagli altri lo stesso impegno. E’anche un uomo sensibile, intelligente, spesso burbero e di grande cultura soprattutto in tema di arte e teologia. Ti sei ispirato a qualcuno nel creare Colasette o è tutto frutto della tua fantasia?

La fantasia, anche letteraria, si nutre inevitabilmente dalla realtà, anche quando crei i personaggi. Ma è più un fatto di spunto da cui partire che di riproduzione di precisi individui. Colasette è un uomo con le sue contraddizioni tra cui quella di cui parli. Ma ne ha altre. Forse il suo modo di affrontare la vita ha in sé un nucleo di contraddittorio. Per me era importante che fosse un personaggio che possa piacere, a cui ci si possa affezionare nonostante i suoi limiti. Riguardo alla cultura di Colasette, mi sono premunito di renderlo esperto di cose che io conosco bene. Ma, per poterlo scrivere, ho dovuto comunque informarmi e leggere molto. Forse la cosa più bella per me di scrivere un libro è la parte di preparazione, quando l’idea è ancora vaga ma leggi molto del soggetto determinante per il tuo romanzo per esserne avvolto, per respirarlo costantemente. Anche se poi nel libro, di tutto quanto letto, potrebbe anche non apparire neppure una riga.

Anche Irene Iannone, assistente sociale cresciuta nel condominio dove sono state trovate le vittime, è un personaggio particolare che mi ha incuriosita molto. Irene svolge un lavoro non facile in cui si dedica agli altri, ai loro bisogni. Anche nella vita privata è molto generosa e sensibile. L’ho trovata un po’ infantile e ingenua in certe situazioni ma è anche testarda nel voler compiere delle indagini private. Come è nato il personaggio di Irene? Come mai hai deciso di dare vita a due indagini parallele, una ufficiale e una ufficiosa?

Credo che Irene sia il personaggio più originale del libro, anche vista in una prospettiva più ampia appunto di genere giallo. È l’eroe per caso, l’investigatrice suo malgrado. Come dici tu ha una personalità che si divide. Da una parte ha un’ingenuità quasi infantile, soprattutto nelle relazioni con gli uomini, dovuta soprattutto ai traumi familiari che le hanno impedito la possibilità di uno sviluppo sentimentale adeguato. Dall’altra però, con il suo lavoro è riuscita ad andare oltre il punto di partenza sociale. Ciononostante rimane sempre figlia di suo padre e di sua madre. Così si sente vista e giudicata dagli altri. Lei, come personaggio, mi permetteva di creare un romanzo più dinamico, dove anche la valenza sociale avesse un grosso peso. Però nel caso di Irene, lo viviamo dall’interno, ci possiamo muovere a un livello paritario degli altri personaggi che sono cresciuti con lei. Colasette e la sua collega Bercalli non sono di quel paese e sono poliziotti, due cose che inevitabilmente li separano dagli altri. Per questo nel romanzo capita che Irene anticipi anche la polizia nell’intuire le ragioni di certi accadimenti.

Il terzo giorno è ambientato a Colle Ventoso, un paesino lombardo dove, da tradizione italiana, tutti conoscono tutto di tutti. Credo che l’ambientazione molto realistica fornisca più credibilità alla storia, sei d’accordo con me?

Vivo a Londra da vent’anni ma sono nato e cresciuto in un paese della Brianza e lì torno regolarmente. È un territorio che conosco bene e la maggior parte delle cose comprese in questa investigazione hanno un qualche rimando alla realtà. La provincia è sempre stato un luogo che ha ispirato la letteratura. Perché lì più che altrove si vede questo tentativo di uniformarsi a delle regole di forma, anche morale, accettabili da tutti, anche se puramente astratte. Una forma di idealizzazione che costantemente viene smentita dalla realtà. Eppure il parametro di riferimento rimane sempre l’idealizzazione e non la realtà. Da qui ne viene fuori quello che spesso si definisce ipocrisia della provincia o, se vogliamo, moralismo di forma e anche la resistenza al cambiamento che, almeno fino a pochi anni fa, in provincia arrivava sempre dopo.

Un tema rilevante ne Il terzo giorno è sicuramente la religione, la fede. Le riflessioni di Colasette a questo proposito sono molto interessanti. Trovi sia facile parlare di religione e di fede oggi?

Religione e fede, è un discordo davvero complesso e nel romanzo se c’è l’ambizione di parlarne non è certo per essere esaustivi. Ci sono diversi personaggi che mostrano diversi modi di vivere la religione e la propria fede. Nel romanzo si accenna allo snaturamento della fede cattolica a fini puramente politici. Quello che fa Salvini, per intenderci. Ed è molto interessante come molticattolici si schierino con lui arrivando a screditare il papa per le sue scelte e dichiarazioni. Altrettanto interessante come i principali giornali cattolici, Avvenire e Famiglia Cristiana, nel nome del vangelo, si sono dichiaratamente schierati contro questa strumentalizzazione della religione. Quello che più conta nel romanzo, è l’atmosfera pasquale, in certi passaggi presa quasi alla lettera, di sofferenza, via crucis, sacrificio, morte, attesa della risurrezione. Nel romanzo, infatti, c’è un cadavere che deve venir fuori dalla terra per poter spiegare cosa è successo. E questa riesumazione avviene il giorno di pasqua, la sera, quando tutti sono provati e stanchi e pure la pioggia battente sembra non aver nulla di pasquale.

Conosci il genere thrillernordico? C’è qualche autore che apprezzi particolarmente?

Ammetto che ho scritto un romanzo giallo-noir senza essere un cultore del genere. Qui a Londra quando si parla di thriller nordico si intende il filone scandinavo che ha avuto gran successo. Ho letto poco ma ho visto diverse serie. Ai tempi dell’università ho letto, come tutti, qualche Georges Simenon, ho molto amato i libri di Friedrich Dürrenmatt e Manuel Vázquez Montalban. Mi divertivo parecchio a leggere i romanzi con protagonista Sanantonio, dello scrittore franceseFrédéric Dard, e poi i romanzi di Andrea G. Pinketts, milanese, con il suo enorme talento linguistico e la sua ironia. In anni recenti ho apprezzato i noir di Elisabetta Bucciarelli, ambientati sulle Alpi, i noir di Grazia Verasani, romanzi legati alla città di Bologna. Tra l’altro, sono entrambe scrittici ma non solo di gialli. E poi, per restare nel nord Italia, è lì che Il nome della rosa è ambientato. Ma qui siamo nell’ambito del capolavoro e delimitarlo in un genere sarebbe riduttivo.

Paolo Nelli 

Ilaria Bagnati 

 

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