Intervista a Romana Petri




A tu per tu con l’autore


 

Salve Romana e benvenuta in ThrillerNord. È per me un grande piacere avere la possibilità di fare questa piccola intervista perché la seguo da diverso tempo. Come ho scritto nel commento al romanzo, leggere uno dei suoi libri è, per me, come tornare un po’ a casa, alle storie che amo e di cui amo leggere. Amo la profondità che riesce a dare ai personaggi, nel bene e nel male. Amo l’accuratezza e il trasporto che si notano nella descrizione dei lunghi. Partiamo da qui.

Dai suoi romanzi emerge una grande Lisbona, romantica e bellissima, a tratti grottesca, ma sempre molto affascinante. E poi c’è Roma e i suoi lunghi incantati, la sempiterna culla di ogni bellezza. Cosa rappresentano per lei queste due città?

Roma, per me, mantiene e manterrà per sempre il primo posto. Nonostante i suoi innumerevoli difetti trovo che i fascini siano sempre superiori. Mi piace viaggiare e di ogni luogo che vedo trovo il buono, ma quando poi torno a Roma (magari con un’assenza di sole ventiquattro ore) provo sempre un’emozione. Non sono certo Fiumicino o la stazione a darmela, ma l’idea di essere a Roma (pronunciato romanamente aroma). Lisbona ha il secondo posto. Ho vissuto a lungo in questa meravigliosa città, ma sempre facendo la spola, altrimenti non ce l’avrei mai fatta. È una città fatta di molti incanti. È mediterranea e nordica allo stesso tempo, ha una luminosità senza pari e un cielo che anche a notte fonda non è mai nero, ma azzurro carta da zucchero. E un profumo inconfondibile. In una famosa canzone di Amália Rodrigues, infatti, si dice Cheira a Lisboa, profuma di Lisbona.

La famiglia è il centro di tutto. La Albertini viene radiata dalla famiglia di Vasco perché ha messo a nudo, in una mostra, il vero volto dei protagonisti. Ne sono offesi, umiliati, sconvolti e lei ne è sorpresa perché non ha fatto altro che dipingere ciò che ha visto. L’apparenza sopra la sostanza, verrebbe da dire. La freddezza e il tenere a distanza le persone per studiarle, per arrivare a fidarsi. La classica famiglia portoghese. Sono davvero così? 

Forse non proprio fino a questo punto, ma i portoghesi in generale sono persone che non si abbandonano facilmente, hanno paura di mettersi a nudo e ogni emozione mostrata è per loro sinonimo di debolezza. Per loro è più facile il silenzio, la reticenza. Ogni confidenza ti può essere ritorta contro. E così, soprattutto nelle famiglie, nascono questi rapporti fatti soprattutto di anoressia sentimentale. Celano ciò che realmente provano per non essere giudicati. Sono allenati al silenzio. Soffrono in silenzio. Sembrano non avere bisogno del conforto. Ma non è così. Sono i primi a soffrirne, ma non riescono a cambiare. Naturalmente, ciò che descrivo nel romanzo può accadere in qualsiasi parte del mondo. Diciamo che in Portogallo è più frequente.

Vasco e la Albertini sono i nostri protagonisti. Così diversi ma così innamorati. Piena di energie lei e l’uomo delle attese lui. Si completano, si stimolano, si spalleggiano. Formano una famiglia quasi perfetta, come non lo è, e non lo è mai stata, quella di Vasco lasciata a Lisbona. Negli anni Tiago, il padre di Vasco, non è cambiato (l’ho disprezzato come la prima volta) ma durante l’evolversi della storia c’è una sorta di riavvicinamento tra i due uomini e Vasco scopre di non essere poi così diverso da quel padre che ha sempre goduto nell’umiliarlo e nel degradarlo. Si può dire, quindi, che nella maturità si finisce per apprezzare quello che da ragazzi ci dava così fastidio nei nostri genitori?

Ho messo in esergo una bellissima frase di Cormac McCharthy che dice proprio questo. Esiste un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui si può parlare di ritorno in seno. È una questione legata all’età, alla fine, di quel latte che bevemmo nell’infanzia siamo fatti. Ci siamo rivoltati, ribellati, abbiamo contestato. La tipica frase della giovinezza è: non sarò mai come voi. E poi dipende da quello che succede. Alla fine, anche continuando a non volerlo, ai nostri genitori finiamo sempre per somigliare un po’. In alcuni casi è una gran bella cosa. In altri sarebbe meglio tenere duro. 

Il dolore. A volte lo usiamo per sprofondare in noi stessi, altre volte come stimolo per tornare a vivere serenamente, anche se non è affatto facile. Di certo mette a nudo le nostre grandi fragilità.  Il dolore come arma o come misura? Come lo affronta Vasco e come lo affronta la Albertini. 

Sono sempre stata del parere che il dolore serva solo a soffrire. In un altro mio libro avevo condensato il pensiero con questa frase: la vita è una breve competizione dove chi soffre di meno ha vinto. Non sono una New Age, anzi, credo che quell’atteggiamento abbia confuso molto le idee, quindi continuo ad essere convinta che il dolore sia una vera iattura. Dal dolore si disimpara, e soprattutto la gioia di vivere. Eppure sono in molti a farne l’apologia del dolore. Discuto spesso su questo argomento, ma nessuno demorde, solo alla fine, quando dopo aver elogiato tanto ciò che si impara dal dolore auguro loro una vita piena di apprendimento. Allora si arrabbiamo. E io mi metto a ridere. Vasco è un debole e non ha nessuna fiducia in se stesso. È un Oblomov, ma fa meno tenerezza perché in realtà sarebbe anche molto ambizioso. Vorrebbe avere successo, ma non sa come fare. Tutto questo porta solo al risentimento, al livore. E all’invidia, soprattutto del grande e inaspettato successo di sua moglie. Gli uomini che non hanno successo, fanno ancora molta fatica ad accettare quello delle loro compagne. La Albertini invece è un’artista a tutto tondo, lo è al punto da diventare un’istallazione di se stessa. Lei non ha mai subito il fascino del dolore. Crede negli dèi, che agli uomini sono simili. E poi, qualsiasi male possano farle lei lo supera con la grande passione per la pittura. Nella vita, in realtà, credo basti avere una passione per salvarsi. E non deve essere per forza artistica. Una passione. Una qualsiasi come paracadute. Insomma, al dolore bisogna sempre opporre un piacere.

Non posso fare a meno di parlare di Barabba e del magnifico rapporto tra lui e la Albertini. Mi ha commosso e deliziato. Barabba è decisamente più che un cane, è il compagno perfetto, quello che capisce ogni stato d’animo e ogni sospiro, quello che è sempre dalla tua parte con infinita pazienza e amore. Esiste o è esistito un Barabba nella sua vita? 

Dal momento che la Albertini esiste veramente, che è una pittrice e che si chiama proprio così, Barabba è esistito nella sua vita. O meglio, anche nella sua vita, perché chi ha avuto un cane e a saputo amarlo e capirne il linguaggio non può che esserne stato travolto. Anche io ho avuto e ho un Barabba. Due amori straordinari, fatti di intesa immediata, quella che spesso crediamo di trovare con le persone. Non tutti coloro che hanno avuto o hanno un cane colgono questa differenza. Non è solo il solito amore incondizionato di cui si parla sempre. Deve esserci una reciprocità in questo “incondizionamento”. Quando c’è, si crea una storia come quella della Albertini e del suo amato Barabba. Un giorno chiesi alla Albertini se potevo inserirla nei miei romanzi. Ha accettato senza problemi, ma a una condizione: “Non farmi mai morire Barabba. Non ce la farei a sopportare la sua seconda morte.” E così, visto che nel romanzo gli anni passano, Barabba diventa l’eterno cane. Ma lui e la Albertini non saranno forse di un’altra galassia?

Quanto c’è di invenzione e quanto di vita vissuta in questo romanzo e nei due che lo hanno preceduto?

 In ogni romanzo c’è un pezzo di verità. Ma nei romanzi la verità non basta, ci vuole anche la finzione, la menzogna, la ricerca di una lingua appropriata per ogni personaggio. Io sono stata ognuno di loro, anche il più odioso. Se non mi fossi immedesimata non sarei riuscita a scriverli. Gli autori sono attori che interpretano tante parti. Diciamo che la verità va cristallizzata. Al vero si toglie e al falso si aggiunge. Spesso mi piace nascondermi dietro a un palo della luce… 

Dietro ogni grande autore c’è sempre un grande lettore. Quali sono i suoi scrittori preferiti, quelli a cui si ispira quelli che ama o che hanno dato uno stimolo alla sua creatività? 

Sono un numero infinito. A cominciare da Omero e Cervantes. La canzone di gesta francese e il secolo d’oro spagnolo. Lì dove c’è avventura umana io divento quel che leggo. Credo di aver imparato a scrivere proprio così, diventando quel che mi piaceva leggere. Per i nomi più contemporanei direi senza dubbio Elsa Morante, Flannery O’Connor, Cormac McCharty e Larry McMurtry. E Guimrāes Rosa. Saer, la Lispector, e tanti, tante altre che potrei andare avanti per ore.

Grazie

Sara

 

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