Intervista a Silvia Avallone




A tu per tu con l’autore


A tu per tu oggi con una giovane autrice, Silvia Avallone che si è fatta conoscere dai lettori con Acciaio, suo primo e fortunatissimo romanzo. Per Thrillernord abbiamo recensito “Da dove la vita è perfetta”, un romanzo forte, intenso e carico di significati, ed è stato un piacere per noi, facendo due chiacchiere con l’autrice, ritrovare la stessa passione e la stessa carica emotiva nelle sue parole.

Pur avendolo letto anni fa, all’epoca dell’uscita, tra le tante suggestioni che mi ha lasciato Acciaio, ne riporto una in particolare: “Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di Giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro”. È un’immagine potente e soprattutto originale in quanto trasmette un senso di energia inarrestabile. Vita e morte come due forze antitetiche, dinamiche nel loro urlarsi contro. Non una la fine dell’altra. Quale è il tuo rapporto con queste due condizioni e come è cambiato, se è cambiato, ad oggi?

Mi piace raccontare le contraddizioni. Di una persona, di una famiglia, di un luogo, di una coppia, di un momento storico. Perché nella contraddizione c’è l’opportunità di un cambiamento. Nell’imperfezione, nelle crepe, nei fallimenti, nei desideri che non si realizzano, negli ostacoli delle nostre vite, si nascondono le rivoluzioni possibili, le strade inaspettate da prendere. La vita che amo raccontare è quella che sfugge al controllo e alla programmazione: tutti gli eventi realmente importanti ci colgono alla sprovvista, scatenano insieme forza e debolezza, e in questo scontro noi diventiamo. Una parte di noi muore, ne nasce un’altra. Non riesco a dire, perché non riesco ad accettarla, la fine di qualcosa. Riesco a dire solo inizi, solo cambiamenti. E iniziare è una delle imprese più difficili ed necessarie che esistano.

Nei tuoi romanzi grande attenzione è data al femminile, nelle diverse fasi e ruoli dell’esistenza, figlie, madri, mogli, amiche; ed ai differenti modi di esserlo. Il peso del voler “apparire” a tutti i costi, il peso del voler “essere” a tutti i costi. Si ha la sensazione che nessuna figura sia in equilibrio di per se stessa, ma che questo equilibrio sia raggiungibile solo in sinergia con l’altro, in una sorta di altalena.  Nessuno, dunque, si salva da solo?

Nessuno, anzitutto, è un io. Siamo tutti impastati di parole, desideri, errori, sogni, altrui. Dei nostri genitori, anzitutto. E poi del quartiere in cui viviamo, degli amici e degli amori che ci parlano, ci insegnano, ci ostacolano. Siamo un noi, che però spesso è chiamato a fare delle scelte. E scegliere liberamente richiede solitudine, un’identità forte che tenta di ribaltare il destino. I miei personaggi provano a emanciparsi, cercano il proprio riscatto, ma la vita – come scrisse Franzen ne „Le correzioni“ – non serve a vincere, e aggiungo: non quadra quasi mai. Quindi le mie donne, ma anche i miei uomini, devono riuscire a conquistarsi la felicità che meritano, accettando il fatto che non tutto della propria storia e del proprio passato si può aggiustare.

 Con il tuo ultimo romanzo “Da dove la vita è perfetta”, torni a raccontarci la vita nella periferia, scegliendo come ambientazione quella che tu definisci “la mia personale geografia dell’esclusione”. Credi che questo particolare background possa offrire spunti più “interessanti” nella costruzione della storia?

Amo raccontare le periferie, di più: ho bisogno di farlo. E per periferia intendo un quartiere ai margini di una città, una provincia che si svuota, l’altra parte della strada, l’appartamento accanto, la nostra stanza: qualsiasi luogo in cui qualcuno si senta escluso ed emarginato, e „da cui“ si affacci per immaginare che laggiù, da qualche parte all’orizzonte, un luogo dove la vita è perfetta esista. Naturalmente non ci sono paradisi. Ma non è questo che conta. L‘importante è che la periferia ti mette sete, fame, e desiderio, ti fa venire voglia di cambiare, di partire, di affrontare i problemi e di lottare. E credo che la felicità abbia ancora più a che fare con la possibilità di fare progetti, che con il realizzarli.
Poi c’è anche una ragione etica, o se si preferisce politica, nel raccontare le periferie. Per me il romanzo rimane uno straordinario strumento per portare parole, voce, testimonianze là dove non vuole entrare nessuno, per far scattare solidarietà e amicizia al posto di indifferenza e senso di resa, o peggio ancora di giudizi e pregiudizi. Raccontare i problemi è l’unico modo che conosco per cominciare ad affrontarli. Leggere un romanzo che ne parla, uno strumento indispensabile per abbracciare gli altri.

C’è un netto contrasto tra la vita di periferia e quella di città. Adele vive nel degrado, in un quartiere di casermoni, con ben poche prospettive. Dora al contrario vive in città, ha una casa con un arredamento ricercato, un lavoro da insegnante. Eppure queste due donne così diverse, sono due anime senza pace, esseri fragili, unite da un istinto materno che le rende più simili di quanto possano pensare. Come sono nate le tue protagoniste? Con quale ti senti più affine?

Siamo tutti fragili, ma viviamo in una società che non ci permette di dirlo ad alta voce. Anche per questo amo i romanzi, perché ti concedono il privilegio di mettere a nudo i personaggi, e facendo questo di metterti a nudo a tua volta, di liberarti e di accettarti per quello che sei. Che non è quel che vogliono gli altri, e spesso non è neppure quello che desideri tu. Ognuno di noi ha una storia, conosce dolore e sconfitte, prova sentimenti di cui si vergogna. Ma i sentimenti non si giudicano, si nominano: per imparare a crescere, a migliorare, a fare pace con se stessi e con il mondo. Dora e Adele hanno il coraggio e la forza di guardarsi dritte in faccia. Dora ha il coraggio di dire: Voglio un figlio, e di chiedersi: Cos’è che ti rende davvero genitore? Adele ha la forza di porsi la stessa domanda, anche a diciassette anni. Entrambe fanno i conti con i loro vuoti, con i loro „senza“. Adele è senza un padre presente, senza una famiglia serena, senza soldi e senza istruzione. Dora è senza una gamba e senza la possibilità di rimanere incinta. Ma i senza non sono solo vuoti, sono anche la molla che fa scattare scelte e ambizioni. Così questi due personaggi non stanno fermi, anzi, prendono decisioni, non temono di cambiare, di inseguire la propria felicità. Io non mi identifico con nessuno dei miei personaggi, che al contrario mi danno l’opportunità di vivere la vita, i pensieri e i sentimenti di un altro. Allo stesso tempo, però, mi affeziono visceralmente a loro, e dentro quasi tutti nascondo un dettaglio di me.

Mi sembra di captare una certa simpatia per il personaggio di Zeno. Cosa ci fa questo giovane uomo in un ambiente tanto arido e difficile, un ragazzo esile con un nome così importante?

Riprendendo la fine della risposta precedente, Zeno è il personaggio dentro cui ho nascosto la mia idea di letteratura, di quel che davvero significa scrivere, raccontare: cercare le parole al servizio delle cose, le parole in grado di custodire, svelare, le vite degli altri, gli oggetti che ci circondano, i sentimenti che proviamo. Un modo per rendere onore a un pezzetto di realtà, per sottrarlo alla dimenticanza. Scrivere per Zeno significa salvare Adele, la ragazza che ama, provare ad aggiustare scrivendo quel che la vita non aggiusta. Zeno spia da una finestra, non è protagonista: è testimone. Questo significa scrivere per me: vivere le vite degli altri perché la mia non mi basta. E se Zeno, in un momento di debolezza, crede che scrivere sia un ripiego; se pensa di non andarsene mai dai Lombriconi, però il suo raccontarli sarà il suo riscatto. Sono gli ambienti difficili, o comunque gli svantaggi, gli ostacoli, a darci la forza e l’occasione di cambiare prospettiva, di fare qualcosa di rivoluzionario. Se siamo appagati, se non avvertiamo un senso di rivalsa, è difficile andare controcorrente.
Zeno, scrivendo in un quartiere dove i ragazzini sognano di fare i boss, viaggia controvento, e si prende la sua occasione. Leggendo, andando a scuola, riesce ad aprirsi un varco dentro un destino che davamo per scontato, per il solo fatto che fosse nato e cresciuto laggiù, in quel quartiere di periferia.
A mio avviso, le periferie dovrebbero essere piene di libri, di biblioteche, di scuole, di asili nido, di cinema, di cultura.

In molti parlano del tuo ultimo lavoro, come del romanzo della maternità. Io non sono particolarmente d’accordo: il ruolo paterno è secondo me molto influente per la storia, così come i forti legami che nascono tra i personaggi, che siano di sangue o di cuore. Allora io chiedo a te Silvia, di cosa parla il tuo romanzo? Come ce lo racconteresti?

Vi dico come l’ho cominciato, e come l’ho scritto.
L’ho cominciato a pochi mesi dal parto, perché ne avevo una paura enorme. Paura, curiosità, desiderio. Di questa esperienza del corpo, ma soprattutto di quello che significa: di punto in bianco sei responsabile della felicità di un altro. Un altro che non ti appartiene, ma che è tuo figlio. Che non è venuto al mondo per continuare la tua storia, bensì per iniziare la sua, eppure tu come genitore hai un ruolo enorme in questo inizio. Inizio che dura un sacco di anni.
Allora ho chiamato in aiuto Adele e Dora, due donne opposte che si apprestavano a diventare madri in modo assai più travagliato e drammatico di me. Ma è proprio delle contraddizioni più grandi che io riesco a trovare chiarezza.
Avevo fatto ricerche sulle adolescenti che rimangono incinte e decidono di dare il bambino che partoriranno in adozione, e sulle coppie che all’opposto attraversano l’esperienza – ancora tabù – dell’infertilità e decidono di adottare. La mia gravidanza, le mie domande, le mie paure ed emozioni inedite, mi hanno dato lo slancio per uscire di casa a caccia di storie. Che poi è uno dei significati più importanti che ha per me scrivere. Ascoltare le esperienze degli altri, visitare luoghi difficili ma pieni di umanità: le corsie di un ospedale, gli uffici di un Tribunale per i Minorenni, per “Da dove la vita è perfetta“.
Non riesco a trovare risposte da sola, ho bisogno di condividere nel senso più grande che conosco: ovvero uscire dalla mia biografia, viverne anche un’altra. E così è stato. Sono diventata mamma insieme ad Adele e Dora. Ho scritto questo romanzo con mia figlia in braccio, mentre dormiva, tenendola nella fascia per poter avere le mani libere di martellare la tastiera del computer.
Ma hai ragione tu: questo romanzo non parla di maternità. Parla del desiderio di un figlio, della vertigine di diventare genitore, della difficoltà di rimanere sempre anche figli. E poi, parla del mio tema preferito: della ricerca di riscatto. E di quanto i libri servano a riscattarsi. E di tante altre piccole cose, perché un romanzo è sempre un pezzetto di mondo da abitare.

Sei diventata mamma da poco, pensi che avresti potuto scrivere questo romanzo con la stessa intensità, gli stessi sentimenti e la stessa forza narrativa se non avessi vissuto tu in prima persona l’esperienza della maternità? La Silvia scrittrice, quanto è cambiata nel suo approccio alla scrittura?

Credo che la maternità aggiunga, alla scrittura. Di più, al lavoro. Toglie tempo, crea una enorme e faticosa sequenza di intoppi, conflitti, dubbi. La nostra società non è affatto attrezzata per le mamme lavoratrici, e non è mai facile, in nessun tipo di mestiere, anche in uno privilegiato e pieno di libertà come il mio. Eppure, rimango convinta che questa esperienza aggiunga. E proprio per i motivi meno raccontati e meno idilliaci: la fatica, l’insicurezza, la rivoluzione delle proprie giornate e quella interiore, ben più profonda. Ho dovuto imparare a scrivere senza orari e a orari impensati. Ho dovuto, e devo, allenarmi a scrivere anche quando non posso farlo. Ossia pensare molto ai miei personaggi, prendere appunti mentali. Ho dovuto esercitarmi all’imprevisto, saper rinunciare, mettermi alla prova un sacco di volte. Eppure, la presenza di mia figlia mi ha dato parole nuove, uno sguardo nuovo, mi ha insegnato a crescere. Mi ha offerto il privilegio di assistere allo sbocciare di una persona, che è più di una storia: è una vita. E questo ha modificato e sta modificando anche il mio modo di affrontare la scrittura.
Riguardo a “Da dove la vita è perfetta“, nello specifico, se fossi stata più brava, avrei saputo raccontare il parto senza viverlo in prima persona. Ma nella realtà ho dovuto passarci in mezzo, senza intermediari, senza transizioni. E questo perché ho ancora molta strada da fare.

Abbiamo parlato della scrittura, ma per esperienza personale, so che il tempo per la lettura quando arriva un bambino, è prezioso e molto, molto ridotto… Sei una scrittrice di narrativa, ma cosa leggi nel tempo libero (se ci riesci…)? E soprattutto, conosci il thriller nordico?

Gli unici thriller nordici che ho letto sono stati quelli di Stieg Larsson. Colgo l’occasione di questo incontro con voi per avventurarmi in un genere ancora così sconosciuto per me. Leggere resta uno spazio di libertà indispensabile, più ancora che scrivere, quindi lotto sempre per ritagliarmi un tempo sacro insieme a un libro. Di recente ho scoperto e amato Kent Haruf e la sua Trilogia della pianura. In generale, amo molto la letteratura americana contemporanea: Philipp Meyer, Jonathan Franzen, Don Delillo. Ma non trascuro mai di rileggere i classici: da Dostoevskij a Elsa Morante. E tengo sempre a portata di mano un libro di poesie.

Grazie mille per la tua disponibilità e per il tempo che ci regali con questa intervista.
Manuela e Sabrina

Grazie a voi! Di cuore.
Silvia Avallone

Manuela Fontenova e Sabrina De Bastiani

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