Intervista a Silvia Dai Pra’




A tu per tu con l’autore


 

Innanzitutto volevo farti i complimenti per l’originalità de “I giudizi sospesi” e per la delicatezza con cui hai affrontato la tematica della violenza domestica senza la retorica con cui spesso se ne parla.

La storia viene paragonata alla tradizione del grande romanzo americano, ma invece vi ho trovato con vivo piacere una storia tipicamente italiana: la classica famiglia “per bene”, con la sua facciata di perfezione per non far sparlare il provincialismo delle cittadine di provincia, e da laziale, di quelle della nostra costa.

Ho apprezzato un sacco che a narrarmi le vicende della famiglia, e di come viene rovinata dal “Mostro”, sia stato Felix, l’anello debole della catena, e non la vittima o un genitore. Com’è nata questa scelta?

Il nucleo iniziale del libro era la relazione tra Perla e James, e la prima questione che ho affrontato è stato il punto di vista della narrazione. Se avessi fatto raccontare questa storia a Perla, tutto sarebbe stato completamente diverso: ovviamente la sua interiorità sarebbe stata scandagliata, invece che restare una sorta di enigma per gran parte del romanzo, ma avrei sacrificato tutti gli altri personaggi che ruotano attorno a lei. Lo stesso sarebbe successo se avessi scelto Mauro o Angela. Così ho optato per un narratore che, all’inizio, quando esplode il conflitto tra Perla e i genitori, opta per una sorta di imparzialità: non sta coi genitori perché è un adolescente e come tale si schiera con chi si ribella (e poi conosce bene tutte le falle della sua “famiglia perfetta”); ma non sta neanche con Perla perché non capisce perché, per ribellarsi, abbia scelto una galera decisamente peggiore di quella che subiva vivendo all’ombra delle ambizioni paterne. 

Da dov’è nata l’idea del romanzo, invece?

In un periodo mi era capitato di guardare diverse registrazioni di storie di vittime di femminicidio, e – al di là di tutti le tematiche connesse, il possesso, il patriarcato, etc – ero rimasta colpita da due cose. In primis, mi ero resa conto di avere, dentro di me, una serie di pensieri stereotipati: ad esempio, mi veniva spontaneo pensare che le vittime potessero essere solo donne cresciute a loro volta in famiglie profondamente maschiliste, che avessero avuto un padre a loro volta violento con la madre, etc – ma in realtà questo non è assolutamente vero, e, al di là di essere tutte cresciute in una realtà patriarcale, ossia l’Italia di ieri e di oggi, le vittime di femminicidio provengono da contesti diversissimi e sono persone da caratteri differenti, molto spesso non c’entrano nulla con lo stereotipo delle “donne fragili che non denunciano per amore”, anzi, spesso sono donne forti che denunciano anche più volte, ma che nessuno tutela. 

Era veramente agghiacciante ascoltare le storie di questi genitori che dovevano rielaborare dei lutti così violenti, così ingiusti, che spesso arrivavano dopo diversi anni di violenze, denunce e intimidazioni, tanto da essere definiti da tutti delitti annunciati. E, da genitore, la domanda che ti viene è: ma io cosa farei?, come reagirei? Perché certe persone non le fermi con un divieto di avvicinamento, e spesso le istituzioni offrono solo questo – ed è inutile dire, come ci viene spontaneo fare, “lo ucciderei”, “lo fermerei io”, perché sono discorsi da bar e praticamente in quasi nella totalità dei casi i femminicidi arrivano dopo anni di inutili denunce e sensazione di impotenza da parte della vittima e delle persone a lei vicine. E’ stata sulla scia di quel dolore che ho cominciato a scrivere il libro.

È interessante la struttura suddivisa in scaglioni temporali, con alcune frasi anticipatorie (amo gli autori che le inseriscono) che incuriosiscono ancor di più. Ti va di parlarci di come hai organizzato tutti i tasselli?

Ho scritto le quattro parti in momenti distinti, ogni volta che ne terminavo una la lavoravo, la tagliavo, la riscrivevo. Poi le ho montate tutte insieme, ovviamente risistemando le incongruenze – in un romanzo così lungo è facile che ci siano – e inserendo qua e là delle anticipazioni, che in un certo senso creano suspence, e, dall’altra, fanno entrare la voce del Felix adulto accanto a quella del Felix che racconta, che in un certo senso si cala mimeticamente nell’età che aveva al momento della storia. Quindi, lo stesso episodio lo racconta il Felix che ancora non sa cosa succederà dopo, e quello che conosce già la fine della storia. Questo gioco di voci – che spesso creo anche con gli incisi, le parentesi, etc – per me è molto importante in una narrazione in prima persona, perché il monologo non è mai un monologo, noi stessi non siamo uno ma siamo, nel corso della vita, persone via via diverse, quindi anche in una stessa frase una voce narrante ufficialmente unica può sdoppiarsi.

Mi ha incuriosito molto la scelta di non nominare mai la città in cui è ambientato il romanzo e non ti nascondo che a un certo punto è partito il toto-asterischi, da abitante ne ho anche identificate tre o quattro. Volevo chiederti: è stata una scelta dettata dal non voler far riconoscere nessuno, o al contrario per far sì che ci si rivedessimo tutti e renderla più universale?

La scelta è nata da esigenze molto prosaiche: volevo ambientare questa storia in una cittadina sufficientemente piccola da essere inevitabilmente provinciale, sufficientemente grande da avere una sua borghesia intellettuale e un suo liceo classico, e che avesse Roma vicina. Se fossi rimasta nella realtà, le scelte sarebbero state davvero poche, e, soprattutto, limitate a città che non conosco bene. Le province si assomigliano un po’ tutte, questo sì, ma hanno tra loro delle microdifferenze dovute alla storia locale, ai costumi, alle tradizioni. Io sono toscana: prova a dire a un livornese che Livorno e Pisa sono identiche! Se avessi scelto una città precisa, per come sono fatta io, l’avrei dovuta studiare a fondo e dal vivo, ma non era la cosa che mi premeva di più. Così, ho costruito una “Provincia X”, una cittadina che ha quei tipici funzionamenti della provincia: i figli della borghesia che ereditano il mestiere dei genitori; il liceo classico a cui le stesse famiglie mandano i figli da generazioni; le dicerie, le voci, le persone che non ti hanno mai salutato ma che si ricordano di te dopo che ti hanno visto in tv; la piazza dove si trovano i ragazzi; il bar dove si va quando si fa sega a scuola; gli incontri casuali coi vecchi insegnanti e i vecchi compagni di classe, etc.

Un’ultima domanda più leggera: parlando di romanzi familiari, quali sono i tuoi capisaldi?

Sono il mio genere preferito, quindi è difficile rispondere. Così, su due piedi, direi: I Buddenbrook; I fratelli Ashkenazi; Menzogna e Sortilegio; I Viceré; Pastorale americana; se vogliamo anche I Malavoglia, anche se di solito non viene considerato un romanzo familiare – tutte declinazioni del genere, se genere si può chiamare, profondamente diverse tra loro, ma tutte capaci di portare in scena il conflitto tra generazioni e la gabbia che spesso i genitori costruiscono senza volerlo davvero, cercando magari solo di garantire il miglior futuro possibile ai propri figli, il problema è che condividere la stessa casa e lo stesso dna non significa condividere anche gli stessi sogni, gusti o valori.

Ti ringrazio per la disponibilità e ti rinnovo i complimenti per I giudizi sospesi, che è così reale da sembrare una storia vera.

A cura di Laura Bambini 

 

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