Intervista a Vanni Santoni




A tu per tu con l’autore


 

Siamo ciò che leggiamo, medita Enrico, vedendo la libreria a casa della madre. Raccontaci della tua: Santoni cosa legge e quali sono i tuoi riferimenti letterari ?

Avendo già affrontato l’argomento per “La formazione dello scrittore” curata da Mozzi, riparto da lì: in casa mia c’erano molti libri e fumetti, e io li leggevo. Ho cominciato a scrivere molto tardi, ma a leggere molto presto, e anche molto seriamente. Mio nonno mi leggeva i classici; dalla biblioteca di mio padre attingevo indifferentemente libri da bambini e libri da adulti, fumetti da bambini e da adulti (c’erano del resto a disposizione collezioni integrali di Linus, Corto Maltese, Alter, L’Eternauta…). I miei libri preferiti da bambino erano quelli di Calvino, Borges, Andrea Pazienza e Umberto Eco; tra quelli effettivamente destinati all’infanzia apprezzavo il romanzo La pietra del vecchio pescatore e tra i fumetti la Pimpa di Altan e tutta la produzione di Carl Barks. Anche i Ronfi di Adriano Carnevali non erano male.

Rispetto alla lettura di romanzi ho avuto un calo deciso durante l’adolescenza, che tuttavia fu controbilanciato dai fumetti – erano anni gloriosi per chi frequentava un’edicola, esplodevano il manga con capolavori come Berserk o Slam Dunk, il nuovo fumetto inglese della 2000 AD orchestrata da Pat Mills, quello americano di Miller e dell’espatriato Moore, la Vertigo di Gaiman e Ennis… – e dalla poesia: a scuola, mentre sostanzialmente ignoravo tutto quello che cercavano di trasmettermi, scoprii la poesia in lingua inglese. Ecco, come quando a Ginsberg apparve Blake, a me una mattina, sfogliando annoiato l’antologia di Inglese, fin lì intonsa (l’inglese del resto lo sapevo già per conto mio), apparve non solo Blake ma anche Coleridge, Wordsworth, le visioni di trincee e gas di Wilfred Owen, e ancora Dylan Thomas, T.S. Eliot e su tutti Yeats, quello Yeats che neanche la stessa professoressa sapeva ben spiegare – “perne in a gyre”, che vuol dire prof? – e che però brillava di una luce incontrovertibile: diceva, anzi urlava, una cosa molto chiara, che la letteratura può essere una strada per la verità. Anche se in quegli anni mi capitarono fra le mani diversi romanzi per me importanti, come 1984 (il primo libro che mi fece fisicamente sobbalzare) e Flatlandia, che pure lasciò un segno profondo, coi romanzi ripresi seriamente durante l’università: andavo in biblioteca e invece di studiare leggevo un romanzo dietro l’altro. Ricordo che riattaccai seriamente con la collana di letteratura fantastica La biblioteca di Babele della Franco Maria Ricci, diretta da Borges. Da lì, attraverso mi pare il Candido di Voltaire, anzi no, mi sa che era Micromegas, rientrai nella letteratura francese, mi feci tutti i maggiori romanzi ottocenteschi, e poi venne naturale passare a quelli russi e inglesi. Una ragazza arrivata da Bologna, invece, in quegli stessi anni e in quella stessa biblioteca, mi insegnò Rimbaud, e soprattutto Artaud.

Fino a quel momento, però, mai avevo avuto la presunzione di scriverli io, i libri. Quindi forse sto parlando della formazione del lettore. La formazione dello scrittore cominciò diverso tempo dopo. A ventisei anni entrai in contatto, per vie del tutto traverse, con una rivista autoprodotta, e lì davvero cambiò ogni cosa. Quelli leggevano seriamente. Nel senso che leggevano per scrivere. In modo, dunque, diverso da me, che leggevo per piacere. Si ponevano delle domande su cosa aveva fatto l’autore, sul perché lo avesse fatto. Ogni venerdì sera si incontravano, leggevano brani dei classici alternati ai loro racconti, si editavano a vicenda, facevano dibattito. Sul momento pensai che esagerassero, ma la verità è che il venerdì dopo ero di nuovo lì. Presi a scrivere anch’io, per spirito di competizione, mi dicevo, anche se in realtà si era attivato qualcosa di più profondo. Forse era la prima volta che vedevo qualcuno prendere così sul serio qualcosa. Presi a scrivere, e presi anche a leggere in modo diverso. Sui classiconi a quel punto ero abbastanza preparato, ma feci presto a scoprire la mia ignoranza rispetto al Novecento e alla letteratura contemporanea. Si aprirono dunque mondi sterminati. Anche solo un libro di Hubert Selby Jr – era Requiem per un sogno – bastava a sconcertarmi per lo stile mai visto prima; mi avvicinavo a casaccio a Welsh e un attimo dopo, ancora entusiasta, scoprivo che quel tipo di struttura veniva tutta da Faulkner; riprendevo in mano i Burroughs comprati ai tempi del liceo, e solo sfogliati, e realizzavo che ora iniziavo a capirli; mi esaltavo con le cose più diverse, dall’Opera al nero agli Indifferenti, dal Padiglione d’oro alla Campana di vetro ai racconti di Dürrenmatt a Tropico del cancro, e poi scoprivo i contemporanei veri e propri, e a me ignoti, uno dopo l’altro ecco Wallace, Roth, Pynchon, Houllebecq, Bolaño, McCarthy, DeLillo, Vollmann… Periodo molto bello. Da lì, anche se vivaddio le scoperte in letteratura non finiscono mai – proprio quando credevo di aver coperto tutto il meglio di quanto prodotto dopo l’ultima guerra, incappo in Rayuela di Cortázar, faccio due passi e incontro il Capote di A sangue freddo… – ho poi proceduto, in modo più strutturato, a tappare i buchi peggiori che aveva la mia preparazione: conoscevo centinaia di autori ma nessuno in modo completo. Così sono tornato indietro, anzitutto a quelli che preferivo, Tolstoj, Dostoevskij, Mann, Flaubert, Balzac, Céline, Goethe, cercando di completare le bibliografie, cosa che non sempre sono riuscito a fare dato che ogni tot scattava una nuova scoperta impressionante – Controcorrente di Huysmans! I canti orfici di Campana! Lautréamont! Jung! Dick! –, e ogni tanto un classico di quelli che quando hai finito di leggerlo ti chiedi come avevi fatto fino a quel momento – penso a Lolita, a Moby Dick, all’Uomo senza qualità –, e poi, visto che ormai ero lettore da trent’anni, le riletture: quante volte avrò riletto L’Aleph e Finzioni? Quante The Waste Land? The Waste Land lo so a memoria, ne ho ritradotte alcune parti – una l’ho tradotta, per scherzo, pure in valdarnese, e quella traduzione è finita nella Stanza profonda –… l’ho distrutto, quel volumetto arancione, a forza di rileggerlo. A questo si affiancava anche un lavoro sugli autori italiani, che avevo ignorato per troppo tempo. Giunto a quel punto sapevo un po’ muovermi e mi autosomministrai una cura a base di Gadda, Manganelli, Vittorini, Pasolini, Buzzati, Malaparte, Cristina Campo… Pure Horcynus Orca mi son letto. Poi, quando mi sono sentito pronto a tornare agli stranieri, ho fatto ciò che dovevo, con gran gusto nel primo caso, con più fatica nel secondo, e ho letto la Recherche e l’Ulisse. Il tempo di finire entrambi a modino, ed eravamo già a metà anni dieci, periodo in cui lessi moltissima poesia, cosa che non ho poi smesso di fare. Amo molto Sylvia Plath, Paul Celan, Andrea Zanzotto, Ingeborg Bachmann, Allen Ginsberg, Rimbaud. Ho compreso l’enormità di Emily Dickinson. Ho capito che il Nobel a Tranströmer non è sciovinismo. Di recente ho scoperto Paul Éluard. Non smetto mai di rileggere Artaud le mômo e Ci-gît. E ancora Frost, Walcott, Cummings… Ma vedo che sto dimenticando il mio adorato Sebald, e tante nuove scoperte – Cărtărescu, Gospodinov, Krasznahorkai, che in questo momento determinano il “fronte d’onda” del romanzo e riscoperte come il Lanark di Alasdair Gray… Il fatto è che per scrivere bisogna leggere tanto, e quindi qualunque lista è parziale. Se mi chiedi, invece, quali sono le stelle polari dei Fratelli Michelangelo, direi prima di tutto il Niels Lyhne di Jacobsen e il Petrolio di Pasolini, e poi I Buddenbrook e ancor più il Doktor Faustus di Mann, i Karamazov, Cent’anni di solitudine, il Lessico Famigliare della Ginzburg, Bouvard & Pécuchet di Flaubert, senza i quali non esisterebbero Louis e Carletto, e poi naturalmente i due libri che al mio fanno da chiave, l’Ecclesiaste e la Bhagavad-Gītā.

Quando hai maturato l’idea che fossi pronto per scrivere e pubblicare un romanzo così corposo per mole e contenuti?

È andata un po’ diversamente. Lo volevo fare da sempre, solo che prima non ero abbastanza esperto. Ci sono diversi tentativi abortiti prima ancora di cominciare i lavori dei Fratelli Michelangelo, che hanno preso il via nel 2012. Sono potuto arrivare a farlo solo dopo che con la saga di Terra ignota ho imparato – si potrebbe dire nell’“ambiente di sicurezza” di un mondo fantastico – a gestire una trama che si dipana su molti anni e ha diversi protagonisti, e dopo che con Muro di casse e La stanza profonda ho appreso invece a innervare il romanzo di elementi filosofici e “di pensiero” senza indebolire la narrazione.

Raccontaci qualche tua abitudine delle tue giornate di scrittura: ascolti musica, ti isoli dal mondo, hai dei periodi precisi o luoghi che ti danno la giusta tranquillità e ispirazione?

La mia regola aurea è scrivere tutti i giorni, salvo quando sono in promozione. Scrivo in biblioteca se di pomeriggio e al bar se di sera.

Quanto è stato difficile armonizzare e costruire le varie storie dei tuoi personaggi? Il tuo approfondimento sulla cultura indiana e l’arte contemporanea , come lo hai concepito e costruito?

I personaggi sono nati nell’ordine in cui si trovano nel libro. Forse, anche se sono tutti abbastanza diversi da me, rappresentano ciò che si è avvicendato al centro dei miei interessi, quindi – prima di entrare in quella fase in cui c’è da far tornare tutto, ovviamente – generarli è stato un processo abbastanza naturale. Mentre finivo Enrico, Louis era a metà, Cristiana sbozzata e Rudra sono un’idea; mentre finivo Louis, Cristiana era a metà e Rudra sbozzato, e così via, e a ogni passaggio prendeva forma anche Antonio Michelangelo.

Circa i temi che citi, sono due questioni che conoscevo – del resto difficilmente ambiento un romanzo, o anche solo una scena importante, in un luogo o in un ambito che non conosco direttamente –, dato che come Louis ho effettivamente vissuto a Delhi per questioni di business, e sono appassionato di arte contemporanea da una ventina di anni. Naturalmente quando poi c’è stato da scrivere il libro ho studiato, approfondendo i Veda e altri testi chiave della filosofia e della spiritualità indiana, in particolare dello Shaivismo tantrico, e leggendo un sacco di biografie di artisti e saggi anche tecnici sul mercato dell’arte contemporanea e sul suo funzionamento.

Il ritorno, la figura del padre, la famiglia sono alcuni aspetti che emergono dalla lettura del tuo libro “I fratelli Michelangelo” li senti conclusi in queste pagine o pensi che essi torneranno insieme con i loro personaggi in tuoi lavori futuri e cosa bolle in pentola?

I miei libri, come raccontavo a The Catcher e a Crapula, sono tutti interconnessi narrativamente, ma trattano sempre temi diversi o molto diversi. Quando sviscero qualcosa con un libro, il mio interesse, almeno per il suo potenziale narrativo tende a calare, quindi credo che affronterò altri temi, fatto salvo il ritorno, che mi porto dietro da Gli interessi in comune ed è uno dei temi forti della Stanza profonda, e quindi non è implausibile pensare che continuerà ad accompagnarmi. Difficile dire cosa farò. Ho tempo, dato che in ottobre tornerà in libreria, intanto, Gli interessi in comune, e poi farò altri progettini laterali. Un’idea per un romanzo grosso che inizia a formarsi c’è, ma è ancora presto per capire se è sufficientemente buona.

Vanni Santoni

Francesco Morra

 

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