La donna in bianco




Recensione di Loredana Cescutti


Autore: Wilkie Collins

Traduzione: Stefano Tummolini

Editore: Fazi

Genere: Giallo

Pagine: 756 p., R

Anno di pubblicazione: 2018

Prima  pubblicazione, a puntate: 1860

Sinossi. Quale terribile segreto nasconde la misteriosa figura femminile che si aggira di notte per le buie strade di Londra? Questo è solo il primo di una serie di intrighi, apparizioni e sparizioni, delitti e scambi di identità̀ che compongono la trama della Donna in bianco, tessuta con magistrale sapienza da Wilkie Collins. Nel 1860 Charles Dickens pubblicò il romanzo a puntate sulla sua rivista «All the Year Round» suscitando uno straordinario interesse nel pubblico, che seguì per un intero anno le vicende della sventurata Anne Catherick e quelle degli altri personaggi, descritti con impareggiabile abilità psicologica, come l’impavida Marian Halcombe, il coraggioso Walter Hartright e l’affascinante quanto ambiguo conte Fosco. È passato un secolo e mezzo e le cose non sono cambiate. Anche il lettore moderno più̀ smaliziato non può̀ che rimanere piacevolmente intrappolato negli ingranaggi di questa straordinaria macchina narrativa, che ha segnato per sempre la tradizione del mistery, facendo guadagnare al suo autore l’attributo di “padre del poliziesco moderno”. Non c’è lunghezza che tenga: di un libro del genere si arriva sempre al fondo con rimpianto. La donna in bianco è anche un musical di grande successo realizzato da Andrew Lloyd Webber.

“Come un’ombra ella venne a me la prima volta, nella solitudine della notte. Come un’ombra adesso si allontana, nella solitudine dei morti.”

Recensione

Può un romanzo che porta sulle spalle 160 anni di vita, farsi leggere facendoti dimenticare di essere così “maturo” per stile narrativo, intreccio e cura estrema nella descrizione di luoghi oltre ad un’analisi psicologica approfondita dei personaggi?

Non so se voi ve lo siate mai chiesto di un libro così datato, ma io dopo aver letto “La donna in bianco” posso affermare di sì senza alcuna riserva.

Wilkie Collins mi ha lasciata senza parole, ha dato vita ad un quadro estremamente ben organizzato, partendo da una tela bianca e inserendo, via via, gli elementi necessari, ma con una puntigliosità tale da rendere il suo romanzo unico, irripetibile e imperdibile.

Che sia io a consigliare un libro che ha più di cento anni credetemi, è veramente un’eccezione perché pur essendomi stato caldamente suggerito sulla base dei miei gusti personali di lettura (io nasco come lettrice di gialli e thriller), ne ero intimorita. Il periodo storico, l’ambientazione, anche la mole di pagine che di norma non mi spaventa ma qui insomma mi sono detta, e se poi non piace come faccio a finirlo tutto, oppure lo lascio a metà, oppure ci impiegherò una vita a leggerlo e invece no.

Pochi giorni e sempre più dentro la storia, rapita dai personaggi così magistralmente creati, che finiscono per catturare il tuo lato emotivo e ti permettono di farsi leggere dentro, così da percepire le loro emozioni, le loro sensazioni le loro paure, le loro fragilità e perché no, di qualcuno anche l’infinità crudeltà del proprio animo.

La figura della donna qui, a mio avviso, assume un ruolo determinante, perché in un periodo storico in cui essere una signora, anche nell’alta società, di fatto non aveva alcun valore a livello legale, in questo frangente, grazie a Miss Marian Halcombe, ci verrà dimostrato che non significa non contare nulla e che invece, molto dipenderà dalla personalità di ognuna. Fino alla fine di quest’incredibile avventura, sarà colei che terrà in piedi, proprio alla sua grande forza interiore, quel poco che le resta della sua famiglia, è farà di tutto per proteggere ciò che le è più caro. Anche a costo di grandi sofferenze.

I personaggi si presentano talmente ben costruiti e caratterizzati da sembrare reali in pregi e difetti. Il conte Fosco è indubbiamente una figura dal magnetismo dominante, in cui si avverte tutta l’ambiguità che lo contraddistingue: un’abilità di oratore ammaliante come quella di un incantatore di serpenti, una capacità di intrattenimento e galanteria fuori dal comune e al contempo, uno sguardo glaciale che impietrisce chiunque abbia la s/fortuna di incrociarlo.

La tenerezza gentile di Walter Hartright arriva in presa diretta assieme alla sua infinita pazienza, al suo amore profondo per quella donna che dalla prima volta gli ha rubato il cuore. Ha sopportato di tutto, caparbiamente, ha lottato a rischio della propria vita, ma alla fine, forse, ne varrà la pena.

La scrittura si presenta innovativa, mi è piaciuto molto leggere le diverse testimonianze dei vari personaggi coinvolti, dove ognuno a suo modo, ha apportato un qualcosa in più al racconto, arricchendolo così di preziosi dettagli necessari per giungere all’epilogo di questa lunga avventura, oltre ad inserire abilmente, anche qualche piccola distrazione, tanto per provare a mettere in difficoltà il lettore. Dico lunga per le 756 pagine scritte in piccolissimo che compongono il libro, ma che in nessun momento si sono rivelate noiose e anzi, a ogni cambio di scena le sorprese si sono moltiplicate, rendendomi sempre più dipendente dalla storia davanti alla prospettiva di pensare di aver capito qualcosa e invece…

… e invece mi ritrovavo abilmente indirizzata dalla parte sbagliata, ancora una volta!

Questo libro è sicuramente un poliziesco d’altri tempi, ma che avvince come fosse un thriller dei giorni nostri per ritmo, velocità narrativa e assenza di tempi morti. In alcuni momenti assume addirittura toni da spy stories. È un grande gioco di specchi, uno spettacolo di magia ben organizzato che ti conduce dove i personaggi vorranno portarti, senza mai permetterti che a prendere il controllo sia tu.

Finirà quando lo deciderà ognuno di loro.

Per me si è rivelata un’autentica scoperta. Che dire ancora, o meglio, da raccontare ci sarebbe moltissimo ma lungi da me farlo e invece, vi dico l’unica cosa che sento di consigliarvi in questo momento, leggetelo.

Prima di concludere, vorrei ringraziare la casa editrice Fazi, che proprio con la solidarietà digitale, durante il lunghissimo periodo di lockdown ci ha intrattenuto, regalandoci settimanalmente grandi romanzi, fra cui appunto anche “La donna in bianco”.

Perfino gli uomini migliori non sono sempre coerenti nel far del bene: perché dovrebbero esserlo quelli peggiori, nel fare male?”

Buona lettura!

Wilkie Collins


Considerato il padre del genere poliziesco, Wilkie Collins, figlio del pittore di paesaggi William Collins, nacque a Londra l’8 gennaio 1824. Dopo aver cercato senza successo di intraprendere una carriera commerciale, studiò legge e nel 1851 ottenne l’abilitazione all’avvocatura. Non praticò però mai la professione legale e utilizzò la conoscenza del crimine nei suoi scritti. Oltre alla passione per la scrittura, coltivò anche quella per la pittura, ed espose le sue opere alla Royal Academy in una mostra nell’estate del 1849. Nel 1852 conobbe Charles Dickens, con il quale iniziò una duratura amicizia. Autore particolarmente prolifico, scrisse venticinque romanzi, più di cinquanta racconti, numerose opere teatrali. Dedicò la sua prima opera al padre, morto nel 1847, “Memoirs of the Life of William Collins”, edita l’anno successivo. Pubblicò poi due romanzi: “Antonina” nel 1850 e “Basil” nel 1852. Il primo romanzo maturo risale al 1860: “La donna in bianco”, complicatissimo romanzo a tinte forti ispiratogli da un fatto personale realmente accaduto e improntato agli influssi balzachiani. Il suo capolavoro fu però “La pietra di Luna”, del 1868, appassionante romanzo raccontato a più voci in cui si narra di un prezioso gioiello andato perso e dell’onore di una ragazza che rischia di essere macchiato. Fra gli altri suoi romanzi si ricordano: “Senza nome”, “La Legge e la Signora”, “Armadale”, “Il fiume della colpa”, “La veste nera”, “Uomo e donna” e “Foglie Cadute”. A partire dal 1870, anno della morte di Dickens, la fama di Collins cominciò a scemare, iniziò a soffrire di artrite, finì col diventare dipendente dall’oppio, sviluppò una sindrome paranoica che lo portò a credere di essere sempre accompagnato dal suo alter ego. Non si sposò mai, ma intrattenne relazioni durature con due diverse donne: la vedova Caroline Graves, conosciuta nel 1958 e con la quale convisse per molti anni, e Martha Rudd, con la quale ebbe tre figli. Morì il 23 settembre 1889 e venne seppellito al Kensal Green Cemetery.

 

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