Mia cugina Rachele




Recensione di Laura Salvadori


Autore: Daphne Du Maurier

Traduttore: Marina Morpurgo

Editore: Neri Pozza Editore

Pagine: 315

Genere: Giallo

Anno di pubblicazione: 2017

Sinossi. Cornovaglia, metà Ottocento. Rimasto orfano a diciotto mesi, dopo la morte improvvisa dei genitori, Philip Ashley viene cresciuto dal cugino Ambrose, uno scapolo impenitente e non privo di una buona dose di misoginia. Per anni il loro ménage familiare scorre sereno e tranquillo e vano risulta qualsiasi tentativo da parte di amici e conoscenti di spingere Ambrose verso le gioie domestiche del matrimonio. Grande è, perciò, lo stupore di Philip nel ricevere una lettera da Firenze, dove da qualche anno Ambrose si reca a svernare per motivi di salute, in cui il cugino gli comunica di aver sposato una lontana parente, la cugina Rachele, vedova di un nobile italiano che è stato ucciso in un duello, lasciandola con un mucchio di debiti e una grande villa vuota. Quando le lettere di Ambrose dall’Italia assumono i toni sempre più confusi e drammatici di un uomo spaventato, lo sconcerto di Philip si trasforma in un’apprensione tale da spingerlo a raggiungere al più presto la città toscana. A Firenze, però, lo aspetta un’amara realtà: Ambrose è deceduto in seguito a un male che lo ha consumato in breve tempo, e Rachele è partita subito dopo il funerale, chiudendo la villa e portando via con sé tutti gli effetti personali del defunto. Rientrato in Cornovaglia, Philip si macera nell’odio nei confronti della cugina Rachele, che si figura come una creatura grottesca e mostruosa capace, davanti al corpo di Ambrose, di afferrare le sue cose, infilare tutto nei bauli e sgusciare via col fare di un serpente. Ma ogni certezza vacilla quando Rachele giunge all’improvviso in Cornovaglia per restituire a Philip gli averi di Ambrose. Intenzionato ad accoglierla con freddo cinismo, se non con aperta ostilità, il giovane si ritrova, turbato e stupefatto, dinanzi a una donna molto diversa da quella che ha agitato le sue veglie e i suoi sogni per mesi. Ma chi si cela, davvero, dietro quella affascinante vedova dai lineamenti belli e regolari e dagli occhi grandi? Una donna che ha perduto l’uomo che amava o una potenziale assassina a caccia di denaro?

RECENSIONE

È un piacere inesauribile rileggere questo sottile noir scritto negli anni ’50 e ambientato nell’Inghilterra vittoriana.

Una trama semplice eppure coinvolgente, il profilo psicologico dei personaggi delineato con maestria, lo studio particolareggiato del pensiero e del sentimento di questi ultimi, e infine le descrizioni degli ambienti (la selvaggia e affascinante Cornovaglia) e dei costumi dell’epoca, fanno di questo romanzo un vero capolavoro. Si tratta di un eccelso esempio di letteratura noir che, dosando sapientemente la suspense in un sottilissimo gioco di equilibri tra dubbio e certezza, tra realtà e immaginazione, riesce a toccare le intime inquietudini umane insinuando il sospetto nel lettore, ma nel contempo evitando accuratamente di svelare troppo.

Ciò che maggiormente colpisce è senza dubbio lo straordinario profilo umano e psicologico del protagonista, tratteggiato con tale realismo nelle sue contraddizioni, nei suoi stati d’animo, nella sua esasperante ossessione, da farci dimenticare, mentre ci immergiamo nel racconto, che a scrivere sia una donna.

Philip Ashley è un giovane inesperto, pericolosamente ignaro delle proprie debolezze, e completamente cieco di fronte alle realtà della vita, proprio come l’amato cugino Ambrose.
Eravamo entrambi dei sognatori, privi di spirito pratico, solitari con la testa imbottita di grandi teorie che non venivano mai messe alla prova e, come tutti i sognatori, eravamo ciechi di fronte al mondo reale, insofferenti nei confronti dei nostri simili, ma comunque bramosi d’affetto”.

Leggendo assistiamo al progressivo e quasi impercettibile evolversi del rapporto tra Philip e Rachele: l’ostilità iniziale, la diffidenza, lo stupore del primo incontro, la fredda cortesia che lascia spazio alla sincera cordialità, la spontanea confidenza destinata a trasformarsi in complicità, la vicinanza occasionale che diventa un’abitudine a cui col tempo è sempre più difficile rinunciare, mentre la crescente attrazione offusca il pensiero razionale. In Philip l’autrice riesce a descrivere, con grande lucidità, la vulnerabilità di un animo maschile completamente soggiogato dalla tirannia dei sensi e accecato dalla passione.

(…) la immaginavo come una creatura mostruosa, grottesca. Gli occhi cme prugnole, i lineamenti aquilini simili a quelli di Rainaldi, si muoveva silenziosa e sfuggente tra i muri ammuffiti della villa, con il fare di un serpente…

(…) in qualche cantuccio c’era una vecchia acida e bisbetica, circondata dai suoi avvocati; (…) una creatura arrogante che parlava con voce troppo alta; in un altro ancora una bambolina petulante e viziata, i capelli pettinati in boccoli; e infine c’era una vipera, strisciante e silenziosa. Ma in quella stanza con me non c’era nessuna di queste. La rabbia mi appariva fuori luogo ora, e anche l’odio”

Parallelamente a Philip troviamo il personaggio di Rachele, che fino alla fine non è possibile ingabbiare in un giudizio definitivo. Rachele è la perfetta femme fatale, capace di intrappolare l’uomo prescelto in una rete di sguardi e sorrisi e di soggiogarlo completamente.

Come saggiamente afferma il padrino di Philip, mettendo in guardia, “ci sono delle donne le quali, senza colpa loro, sono portatrici di sciagura. Tutto ciò che toccano diventa tragedia”.

Rachele riesce a soggiogare anche il lettore, come ha fatto con Philip, il quale non può evitare di chiedersi costantemente chi sia questa donna. Semplicemente una straniera disinibita e dai liberi costumi, o “una creatura non responsabile delle proprie azioni, offuscata dal male. Plagiata e incalzata da un uomo che aveva potere su di lei, priva – per un difetto congenito e per colpa delle circostanze – di un vero senso morale”?

Ed ecco che il dubbio si erge a vero protagonista di questo romanzo e culla il lettore con continui cambi di visione: a tratti vedrà in Rachele spontaneità, bontà e sentimento, a tratti ne coglierà esclusivamente il lato venale, infido, calcolatore e manipolatore.

È in questa eterna condanna al dubbio, che risiede tutta la potenza del romanzo, tutto il dramma del protagonista: quel tormento senza requie che, come lui stesso ci racconta, lo accompagnerà per una vita intera, sempre combattuto tra odio e amore, tra orrore e senso di colpa.

La lettura di questo romanzo non si conclude semplicemente dopo aver voltato l’ultima pagina: chi legge rimane da solo coi propri dubbi, con le proprie riflessioni, con quella strana e inspiegabile sensazione di non essersi veramente congedati dai personaggi, né dagli scenari indimenticabili della Cornovaglia.

Non posso che consigliare questa lettura geniale, sottile, indimenticabile ed esortarvi ad abbandonarvi a questa storia di dubbi e silenzi, estasi e catastrofi, perché l’uomo non potrà mai ergersi a giudice supremo. La verità, infatti, a volte non è assoluta come spesso crediamo.

Daphne Du Maurier


(1907 – 1989) è stata una scrittrice britannica di origini francesi. Ha vissuto tra Londra, la Cornovaglia e Alessandria d’Egitto, dove ha scritto Rebecca, la prima moglie, la sua opera più conosciuta, portata sul grande schermo da Alfred Hitchcock. Nel 1969 è stata insignita del titolo di Dame Commander in the Order of British Empire. Tra le sue opere figurano Jamaica Inn e Gli Uccelli, riadattato per il cinema nel 1963 ancora da Alfred Hitchcock. Tra le sue biografie più importanti si segnala Daphne (Neri Pozza 2016) di Tatiana De Rosnay.

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