Tralummescuro




Recensione di Cristina Bruno


Autore: Francesco Guccini

Editore: Giunti

Genere: narrativa

Pagine: 288

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. ‘Radici’ è il titolo di uno dei primi album di Francesco Guccini, e radici è la parola che forse più di tutte rappresenta il cuore della sua ispirazione artistica. Radici sono quelle che lo legano a Pàvana – piccolo paese tra Emilia e Toscana dove sorge il mulino di famiglia, vera Macondo appenninica ormai viva nel cuore dei lettori – e radici sono quelle che sa rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l’italiano e il dialetto, come da sempre ama fare. Oggi Pàvana è ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio che il narratore evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all’opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all’infinito della fantasia. Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto; la malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato. Francesco Guccini non canta più, ma la sua voce si leva di nuovo per noi, alta, forte, piena di poesia, per consegnarci un’opera che è testamento e testimone da raccogliere, in attesa di una nuova aurora del giorno.

Recensione

Credo sia difficile spiegare a un ragazzo della generazione digitale cos’era il mondo anche solo cinquanta o sessanta anni fa. I luoghi, i sapori, gli odori, i giochi, tutto era situato in un’altra dimensione, che non è solo quella colorata dalla nostalgia. Guccini prova a raccontare, come solo lui sa fare, sprazzi di infanzia e gioventù in un paesino dell’Appennino tosco-emiliano, la mitica Pàvana. La vita, i mestieri, il dialetto, tutto era diverso.

La vita era più semplice, senza tanti lussi e fronzoli. Per imparare a nuotare non c’erano i corsi in piscina ma si andava al fiume. Per andare a ballare o al mercato si facevano almeno un paio di chilometri a piedi. Tutto era collegato da sentieri ricchi di attrattive: alberi da frutto, arbusti con bacche, piccoli animali selvatici.

A fianco della casa dei nonni c’era una piccola fattoria: maiali, mucche, galline, conigli. E c’erano i campi di grano da coltivare e i sassi del fiume da squadrare… mille mestieri ormai dimenticati dalla frenesia della modernità, tanti sentieri ormai impercorribili perché lasciati all’incuria da chi si muove solo in auto. E poi il dialetto. Quei suoni che tornano in mente e hanno il sapore lontano dell’infanzia, suoni che non riesci più a ritrovare perché l’italiano li ha cancellati. Tutto con il passare degli anni è cambiato e molti hanno abbandonato il paese, chi per andare in città e chi perché è passato a miglior vita, generazione dopo generazione.
È terribilmente vero che poco per volta, in nome del progresso, abbiamo lasciato alle spalle tutta una serie di elementi, considerati accessori e quasi “volgari” come la parlata dialettale, i mestieri e i passatempi “poveri”.

Tutta la comunicazione e lo svago passano attraverso smartphone e computer in una sagra dell’immediatezza che non lascia spazio ai ricordi, che divora il passato e non ha attenzione per il futuro. Viviamo in un immenso presente parlando una lingua sempre più impersonale e globalizzata, ignari della storia del luogo in cui siamo nati, privi di radici. Me ne accorgo anch’io e lo vedo accadere sotto i miei occhi ogni giorno nella mia bellissima città, sempre più vuota di veri residenti. A Venezia il dialetto ha perso il mordente, tante parole della tradizione sono estranee alle nuove generazioni che parlano al massimo un italiano “venezianizzato”. È un linguaggio semplificato, che non ha più la freschezza e la ricchezza di una vera e propria lingua. E se perdi le parole e le tradizioni, in virtù di una omologazione globale, alla fine perdi la tua identità. Dovremmo cercare di mantenere in vita non solo la biodiversità a livello di specie animali e vegetali ma anche una sorta di biodiversità linguistica che consenta alle generazioni future di capire un mondo in via di estinzione.

Lasciare la conoscenza in mano alla Rete e affidare la memoria a un motore di ricerca rischia di creare un vuoto cognitivo e di renderci via via incapaci di formulare un pensiero autonomo e di accatastare con coerenza i ricordi. Nell’istantaneità dei social perdiamo giorno dopo giorno la abilità di mantenere l’attenzione su una notizia per più di cinque minuti, pubblichiamo migliaia di foto e di post che non rappresentano davvero la realtà della nostra vita. Viviamo in una continua esibizione ma non sappiamo più chi siamo e da dove veniamo.

Guccini ci dà una mano a recuperare il senso della vita, della lentezza, della memoria. Ci aiuta a comprendere che passato non significa sempre vecchio e superato, anzi significa ricchezza, affetto per chi è vissuto prima di noi, amore per una natura libera da cemento e inquinamento, aspirazione alla semplicità.

Dopo aver letto questo libro abbiamo un buon materiale su cui riflettere. E poi non ci resterà che prendere per mano i nostri figli e, raccontando loro del tempo passato, andare “insieme incontro alla sera”, godendoci quel momento magico tra il non più giorno e il non ancora notte, quando tutto finisce.

Appunto tralummescuro.

A cura di Cristina Bruno

fabulaeintreccio.blogspot.com

 

Francesco Guccini


Francesco Guccini è nato a Modena nel 1940. Cantautore poeta e scrittore, è un mito per generazioni di italiani. Cronista per due anni alla “Gazzetta dell’Emilia” di Modena e cantante chitarrista in orchestre da balera, è stato sporadicamente anche attore, autore di colonne sonore e di fumetti. Per vent’anni, fino alla metà degli anni ottanta, ha insegnato lingua italiana al Dickinson College di Bologna, scuola off-campus dell’Università della Pennsylvania. Ha esordito nella narrativa nel 1989 con Cròniche Epafániche per poi pubblicare molti racconti e romanzi, da solo e in coppia con Loriano Macchiavelli. Ha concluso la sua carriera musicale con il disco L’ultima Thule (2012).

 

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