Intervista a Ade Zeno




A tu per tu con l’autore


 

Sembra che Gonzalo quasi non voglia seguire la carriera accademica o comunque non provi interesse per quella vita e scelga il lavoro di cerimoniere nel Tempio Crematorio senza ripensamento alcuno. Lui doveva trovare un lavoro per aiutare Inés, tu invece come mai lo hai scelto? Ti rivedi in Gonzalo e perché si sceglie un lavoro dove si è circondati da sicuro dolore più che una carriera accademica?

La carriera accademica non è mai stata fra le mie ambizioni. Nel complesso, ambisco a ben poco: ai tipi come me basta disporre di qualche forma di amore inquieto, e abitare in un posto tranquillo, illuminato bene. Del resto all’università ci sono capitato per caso, dopo aver partecipato – senza aspettative – a un bando per una borsa di dottorato. Vinsi il concorso solo perché venne sorteggiato l’unico argomento in cui avevo effettivamente qualcosa da dire, se fosse stata estratta un’altra busta la mia vita avrebbe preso una piega molto diversa, vai a sapere quale. Stesso discorso per il lavoro da cerimoniere: un amico che lavorava al Tempio crematorio si stava trasferendo all’estero e visto che nel frattempo gli assegni di ricerca stavano finendo, mi chiese se fossi disposto a propormi come suo sostituto. Così feci un colloquio e via: nuova svolta nell’intricato labirinto delle possibilità. Sono passati sette anni, e posso confermare senza esitazioni che gli ambienti cimiteriali risultano molto meno funebri di certe aule universitarie.

Può il tuo lavoro ispirare storie o si è troppo cinici se si usa come fonte di ispirazione? Inoltre tu fai anche teatro, per questo ti domando se la scrittura influenza il teatro oppure è il contrario? O addirittura il tuo lavoro influenza entrambi?

È un lavoro insolito, me ne rendo conto, ma di storie da raccontare è pieno il mondo, si possono trovare ovunque: ne sono affollati anche gli uffici postali, i supermercati, i giardinetti con scivoli e altalene, le sale d’aspetto degli ospedali. A fare la differenza, per quanto mi riguarda, non è l’ispirazione, ma lo sguardo di un occhio allenato a scavare. Anche con cinismo, certo, quando serve. Per quanto riguarda il teatro – o più esattamente la drammaturgia – posso solo dirti che per me è un angolo di svago. Ho trovato nella prosa il territorio ideale per dare forma alle mie ossessioni, ma il corpo a corpo con la scrittura è un’attività che ho sempre affrontato con fatica, scoramento, spesso con dolore. Non mi vergogno di dire che odio scrivere. Se mi ostino a farlo è solo perché adoro aver scritto. Cimentarmi nei dialoghi e nelle didascalie di una drammaturgia, invece, mi risulta più naturale, soltanto lì riesco a trovare una leggerezza quasi gioiosa. Se poi si ha il privilegio di incontrare attori disposti a mettere in scena il proprio lavoro, è perfetto. Proprio in questi giorni stanno imbastendo le prime letture a tavolino di un mio testo, Le ultime ore dell’umanità, che spero riesca a debuttare presto in teatro. Se ne sta occupando Jurij Ferrini, regista eccezionale, insieme alla sua meravigliosa compagnia.

Nel 2010 hai fondato una rivista letteraria, Atti Impuri, insieme al collettivo Sparajurij. Oggi è sempre più evidente l’ombra della crisi nel mondo dei libri e delle riviste. Tu hai notato dei cambiamenti nel settore e nei lettori? Perché non si riesce a uscire fuori da questa crisi?

Non posso rispondere a questa domanda senza sentirmi un cialtrone. Queste cose di solto le guardo da lontano, nel senso che mi limito a leggere e interpretare le considerazioni di analisti ben più esperti di me. La rivista che ho fondato e diretto insieme a Sparajurij vendeva poche centinaia di copie, forse meno. Dei grandi numeri – in attivo o in passivo – non ho mai avuto la minima cognizione.

Secondo te una persona può essere condizionata nelle sue azioni da demoni che si crea nella testa o che incontra realmente oppure ha un’inclinazione verso il male e per questo agisce seguendo quei demoni?

I demoni fanno parte di noi, inutile fare finta che dimorino sempre altrove. Nella maggior parte dei casi riescono a starsene nascosti e agiscono sottopelle, in silenzio. Altre volte, invece, escono allo scoperto e si mostrano in tutto il loro orrore. Imparare a conoscere la propria metà oscura (nel mio caso, parlerei più di tre quarti) può risultare importante per evitare di impazzire.

Per scrivere in un modo che cattura letteralmente il lettore e lo porta tra le pagine del tuo libro, quanto si deve leggere? E secondo te, quali sono i libri che possono formare uno scrittore?

Non spetta a me dire se il mio modo di scrivere cattura il lettore. Ma mi riesce difficile immaginare uno scrittore incapace di vedere nella lettura una linfa indispensabile. Qualsiasi libro può formare uno scrittore, se è un libro che lo aiuta a coltivare una lingua e un immaginario. Io mi sono formato su Pavese, Cervantes, Borges, Camus, Garcia Lorca, Kafka, McCarthy, Beckett, gente così. Potrei andare avanti per ore e tralasciare nomi fondamentali.

Domanda di rito per Thrillernord. Hai mai letto un thriller nordico? Se la risposta è affermativa, hai trovato un autore di tuo gradimento? Magari un autore che descrive bene le emozioni e che invita il lettore a entrare tra le stanze ben descritte della storia come fai tu.

Lo confesso: non sono un lettore di thriller in generale, ma credo che la mia resistenza sia dovuta più che altro al fatto che non amo le etichette. Adoro Dürrenmatt, Hitchcock, Chandler e alcune cose di Patricia Highsmith, ma quella di incasellarli in un genere mi è sempre sembrata una forzatura inutile. Quanto agli autori nordici, ne ho frequentati alcuni con goduriosa assiduità, in particolare Dagerman, Gustafsson, Hamsun, Lagerkvist. Dagerman, soprattutto.

Ade Zeno

Marianna Di Felice

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