Chi dà luce rischia il buio
Autore: Giulia Ciarapica
Editore: Rizzoli
Genere: narrativa contemporanea
Pagine: 384 pagine
Anno di pubblicazione: 2022
Sinossi. “Noi non facciamo parte del resto del mondo perché viviamo qui.” Questo Annetta lo sa, lei che si porta dentro tutto il passato di Casette d’Ete, con i suoi fantasmi e i suoi lutti, e l’energia di un paese a cui ciascun figlio resta legato in modo indelebile. Lo sa Valentino, suo ex fidanzato e oggi marito della sorella Giuliana. Sanno anche loro che ogni cosa sta cambiando pur rimanendo immobile, e la Valens, la loro ditta di scarpe da neonato, ne è la prova: arri vano gli anni Sessanta, i laboratori artigiani si trasformano in vere e proprie fabbriche da cui entrano ed escono padroni e operai, ma l’obiettivo resta sempre quello, ideare scarpe. La famiglia Verdini cavalca il boom economico e le loro calzature sono richieste all’estero, eppure la strada del successo si rivela insidiosa, tra scioperi e truffe da parte di concorrenti sleali. A risentirne è anche la famiglia, quel luogo misterioso in cui si mescolano le inquietudini dei figli e i grandi errori dei genitori: se Annetta combatte contro la solitudine del non essere diventata madre, Giuliana cerca nella durezza della maternità la soluzione agli enigmi interiori. Con una prosa limpida e nutrita della tradizione del Novecento, Giulia Ciarapica ci porta nella provincia marchigiana tra i miti scintillanti del boom e le lotte operaie, e ci ricorda che ogni famiglia è un posto diverso, illuminato e oscuro.
Chi dà luce rischia il buio
A cura di Stefania Ceteroni
Recensione di Stefania Ceteroni
https://libri-stefania.blogspot.com
Nel romanzo di Giulia Ciarapica “Chi dà luce rischia il buio” ho trovato, ancor di più che nel precedente volume, la mia terra. Quella fatta dell’odore della pelle, delle voci degli operai nelle fabbriche, quella che si è ritagliata un posto nella produzione di calzature non senza sacrifici. Ho ritrovato i personaggi che avevo amato nel primo volume e, ancor più stavolta, ho sofferto con loro. Ho amato con loro. Ho pianto con loro ma ho anche rialzato la testa con loro, con coraggio. Come i marchigiani – terra di persone testarde, tenaci e determinate – sono abituati a fare.
L’autrice torna a proporre, seppur romanzata, la storia dei suoi nonni – Valentino e Giuliana – che è, a ben guardare, la storia di un territorio che mi piace considerare il protagonista assoluto del racconto.
Un territorio che soffre, come avviene un po’ ovunque (siamo alla fine degli anni sessanta, inizi degli anni settanta) per un futuro che cerca di farsi largo con forza anche in periferia, in quella Casette d’Ete che è molto lontana dalle grandi città ma che, come nelle grandi città, inizia a soffrire le conseguenze dei cambiamenti in atto. Primo tra tutti quello relativo al mondo del lavoro con le proteste dei lavoratori che prendono in contropiede i titolari delle aziende e che segnano un’epoca. Ma anche cambiamenti sociali all’interno delle famiglie dove le donne, le più giovani, non si accontentano più della vita di provincia ed iniziano a ribellarsi agli stereotipi che vanno loro sempre più stretti.
In questo secondo volume l’autrice permette ai suoi personaggi di esporsi, di manifestare le proprie debolezze e fragilità più di quanto non abbia fatto in precedenza. Ammetto di essermi persa in qualche passaggio, in qualche dialogo (ma non certo per l’uso del dialetto che comprendo alla perfezione essendo il mio) ma probabilmente è stato un mio limite dovuto alla voglia di arrivare al più presto alla fine per conoscere l’epilogo di determinate vicende.
È un romanzo di presenze ed assenze, di allontanamenti e avvicinamenti, di gioie e dolori, successi ed insuccessi. È la vita. Ed è, come accennavo all’inizio, la mia terra che si propone con forza e con orgoglio. L’uso del dialetto nei dialoghi – non tutti ma nei più significativi – secondo il mio parere è molto efficace e perfettamente comprensibile. Non sarebbe stato lo stesso romanzo se fosse mancato.
“E famme ‘bboccà, Robè, per piacere. Devo ‘ttaccà la macchina…”.
“Quindi non ce semo capiti? Do’ vai? No ‘bbocca gnisciù, ogghi. Mettete qua”.
Come dialogo tra due dipendenti che affrontano con spirito diverso uno sciopero, uno dei primi organizzati a Casette d’Ete, è molto più efficace così che in italiano perfetto. Non sarebbero reali quei personaggi se non parlassero così, soprattutto nei momenti di maggior tensione. Non saremmo reali, noi marchigiani, se non ci esprimessimo così.
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Giulia Ciarapica
Giulia Ciarapica, classe 1989, una laurea specialistica con lode in Filologia moderna presso l’università degli Studi di Macerata. Blogger culturale, collaboratrice giornalistica e scrittrice. Ha curato la rubrica “Food&Book” per Huffington Post Italia (fino al 2017). Collabora con Il Messaggero e Il Foglio è Direttore Artistico del Festival Letterario “Libri a 180gradi”.