Intervista a A. G. D’errico




A tu per tu con l’autore


Inizio ringraziandola per la bellissima esperienza che si è rivelata essere la lettura del suo romanzo.

I temi affrontati all’interno del libro sono molteplici, da quello del racket alla mania di controllo, oltre all’amicizia e ai rapporti familiari. Temi attuali che in “Intrighi e morte sull’Adda” si sono amalgamati alla perfezione. Com’è arrivato a questo romanzo?

In realtà, è il romanzo che mi ha raggiunto, i costrutti subdoli di una speranza che fatica a cedere alla sconfitta. Sono le cose della vita che urtano la mia coscienza: la toccano, cioè, la sensibilizzano, la scuotono, la mettono alla prova, la riempiono, la svuotano. E più i fatti, gli avvenimenti, sono al limite della tollerabilità più toccano punti nevralgici scoperti. Potrei dire che i personaggi, benché frutto di invenzione letteraria, mi si sono presentati nella realtà carichi del peso dei loro drammi, spogli di veli, di maschere, senza più pudori da preservare dagli assalti dell’assurdità dell’esistenza. Sembra, certe volte, che si vivano brani di tempo che non fanno parte della vita che un uomo di carne e sangue pure meriterebbe. Nell’oblio del tempo che passa rimane poco dell’ideale umano dell’esistenza. Ci si trascina a stento solo per non farsi raggiungere dall’angoscia di una vita che diventa insopportabile. E in questo consumarsi lento o rapido tutto si corrompe, muta sostanza, argomenti, bellezza, verità in cui il rapporto tra il sé e gli altri è solo voglia di lontananza. Si salvano quei rapporti di contiguità che vanno oltre le parole, le promesse, la ricerca di spiegazioni che non trovano cause prime o seconde. Tra un padre e una figlia l’amore è più forte della morte: quell’abbandono a cui non si sopravvive se non con un altro delirio dei sensi, sacro, alto, incorporeo, trascendentale.

Il professore è un personaggio molto particolare. Praticamente vive ancora avvolto nel suo dolore per una perdita importante, quella della moglie, avvenuta prematuramente tempo fa. L’avventura che lo vedrà coinvolto lo aiuterà sicuramente a cambiare prospettive e a lavorare su di sé, anche per il bene di sua figlia. Poiché la costruzione di questo personaggio denota una cura estrema sul lato psicologico, chiedo: com’è nato? È una figura che ritroveremo ancora?

Ogni amore porta con sé un dolore, che si fa evento intimo, inespresso. E’ silenzioso, inesplodibile, controllato, contenuto, raccolto. I gesti sono pacati, rassicuranti, le parole solo quelle necessarie. Nessun padre parla a sua figlia con parole aperte, sciocche, ridondanti. Le parole sono gemiti che accompagnano gli sguardi. Il professore mostra il coraggio di mettersi al fianco della figlia, anche nelle azioni più semplici, sapendo che ogni gesto in un mondo folle si paga caro. Nella quotidianità priva di slanci, l’unico vero significato per il padre e per la figlia è sapersi insieme. A tratti è la figlia che si mostra come padre al padre, e fa di tutto per proteggerlo dal dolore che lo strugge per la morte inaccettabile della moglie, morta poco più che trentenne. Si erano conosciuti sul treno per Milano, da studenti universitari. Erano vissuti, come altri giovani, facendo progetti, entusiasti di speranze, di amore presente e futuro. E invece è intervenuta la morte a interrompere ogni fiducia. C’è stato solo il tempo di concepire un’altra donna, quella figlia bambina che crescendo ha cercato di curarsi del padre, sapendo di poter contare delle cure di lui per sconfiggere il suo bisogno di amore ideale. Padre e figlia sono figure di grande bellezza che solo il tempo potrà restituircele. Sicuramente sono anime che non si dimenticano, sono come quelle persone che si incontrano una volta per caso e sembra impossibile che possano esistere davvero. Sono quei volti, quegli sguardi, quei gesti che ritornano nella memoria per ricordarci che c’è un’umanità che ha valore più delle ricchezze materiali.

Sharika e Caterina, oltre che Lara, sono semplicemente tre ragazze, quando tutto avrà inizio con un’amicizia forte a legarle che, probabilmente, sarà l’arma involontaria che le aiuterà a superare le prove estreme contro cui si imbatteranno. Quante ragazze e donne esistono nel mondo e affrontano ciò che hanno vissuto loro e, però, non riescono a riemergere dall’oblio? Come mai secondo lei?

Le donne sono delicatezza che significa essere portatrici di umanità: levità, bellezza, cura di sé e del mondo, delle cose, della vita. Sono espressione di tenerezza umana, che rappresenta l’essenza di chi è vita sensibile, capace di rispondere ai richiami della vita, che non è sempre bellezza; a volte è insoddisfazione, fallimento, brutalità, avversione, delirio, follia. E quando bisogna combattere per affermare la vita contro la sua negazione si rischia di non farcela. La brutalità è sinonimo di bestialità, contro cui soccombe il più delle volte. Le donne sono tenere come gli uomini, però, come certi uomini, almeno. Non è questione di quantità, se più le une o più gli altri, ma è un fatto di evoluzione, di crescita, di altezza, di bellezza che non ha sesso. Questo mondo di folli si divide sempre tra una forma e il suo opposto, la sua negazione. Bisognerebbe, invece, diventare tutti umanità, riconoscersi simili, essere da parte di chi ha più ragione. Quindi, in definitiva, è necessario trovare le ragioni che pongono fine alle lotte stupide, alle violenze tragiche, alla mostruosità che pure può alimentarsi nell’animo umano. Bisognerebbe ricordarsi ogni giorno di avere più ragioni che affermano la vita e non arrendersi all’evidenza dei fallimenti che scoraggiano.

Nicola incarna il tipico ragazzo che, piegato dalla vita, invece di uscirne veramente, inizia a macerare nell’odio di una realtà alternativa stravolta, distorta, arrivando poi a un passo dal compiere il peggio. Secondo lei, c’è davvero la possibilità di una vita socialmente normale, di una redenzione per persone con questi vissuti?

Non ci si salva da soli in un mondo in cui la tracotanza e l’ignoranza sono spesso sinonimi. E’ necessario tornare a rimeditare la vita, i suoi perché, il suo fine. E’ di questo che si dovrebbe tornare a parlare, soprattutto si dovrebbe agire in funzione di un bene che è sempre collettivo. Non sono gli animi inquieti la causa dei loro fallimenti se intorno i riferimenti che la società propone non lasciano altra speranza. Ci sono ambiti sociali che andrebbero rieducati, ma non a una morale comune, che molto spesso è la morale dominante, andrebbero ricondotti alla vita, quella che scorre in ogni uomo, che è in ogni uomo, soprattutto in coloro che si sono smarriti troppo presto, che hanno rincorso illusioni e hanno segnato destini che probabilmente non erano i propri. Fallisce tutta l’umanità quando qualcuno si perde dietro a richiami che non hanno necessità e valore.

La figura del commissario è molto interessante. Non sembra così presente come dovrebbe, ma allo stesso tempo al momento giusto c’è, interviene, consola, alza la voce. È di poche parole ma usa sempre quelle giuste. Come è avvenuto l’incontro fra di voi? Vi assomigliate o siete come il giorno e la notte?

Flaubert rispondeva a chi gli chiedeva se Madame Bovary avesse un volto, un nome, egli rispondeva: “Madame Bovary c’est moi”. Necessariamente c’è uno scambio di vissuti, di modi essere, di azioni tra chi le scrive e chi le compie, anche se dentro una storia reale o inventata. Siamo vita.  Quando si incontrano poi animi che tendono allo stesso fine, si finisce per assomigliarsi. Anche se auspico che i commissari siano un po’ più simili ad Albani, in considerazione del fatto che a me non riesce bene di vivere quel ruolo. Le aspirazioni dei miei personaggi sono ideali, nel bene o nel male, a me riesce meglio descrivere i caratteri più che viverli. In una dimensione ideale tutto ha una forma propria, nella realtà la forma va creata con volontà, applicazione, riflessione costanti. 

Poiché per la casa editrice Frilli anche il luogo ha un suo valore, posso chiederle come mai ha scelto di ambientare la storia in un paesino sulle sponde dell’Adda?

Certo, carissima Loredana. Hai ragione, perché il raffinato gusto dell’editore Frilli è volto al dettaglio: della storia, certamente, dei caratteri, ma molto all’ambientazione, che porta con sé atmosfere, colori, suoni e perfino sapori, della terra e anche della tavola. I luoghi che descrivo nel mio libro li conosco bene, ho insegnato a Bergamo prima e poi a Treviglio. I colori delle albe e dei tramonti sull’Adda li ho impressi nello sguardo, ogni loro umore, ogni movimento del cielo e dell’aria. La visione del castello visconteo di Cassano ha sempre attirato la mia attenzione, come immagino quella di qualsiasi altro abbia attraversato il paese e il ponte sul fiume. I moti vorticosi del corso dell’acqua in inverno e la placida immobilità in estate sono espressione di una natura particolare e meravigliosa che può generare spirali di fantasia.    

Il finale non mi ha dato certezze assolute, bensì mi ha invece dato l’impressione di una conclusione non propriamente definitiva. Ci sarà altro da raccontare su questa specifica vicenda? Sentiremo ancora parlare del commissario?

Non sono mai certo, in realtà, su cos’altro farò dopo aver terminato un lavoro. Lo dico appena con un’incertezza, perché una storia non finisce definitivamente, come dici bene tu. I personaggi non si lasciano con i loro drammi inconclusi. Essi devono compiere il loro ciclo fino alla fine, come ci ha mostrato Pirandello nei suoi drammi teatrali. Ma i personaggi devono assecondare anche il piacere e la benevolenza dello scrittore, devono scuoterlo, fargli sentire che sono ancora al loro posto e sono pronti per un’altra avventura. Sono sensazioni che si avvertono quando si è nello stato d’animo per pensare a un’altra storia, ad altri personaggi, intanto che nella mente torna insistente quel viso che ti ha tenuto occupato per mesi, che senti vicino a te, odi i sussurri, le sue perplessità, i suoi tormenti. Io ho simpatie per gli animi tormentati. In effetti, Albani ha questa caratteristica, che cerca di nascondere, e per questo è tanto evidente. Sono i tormenti di chi sa che non può commettere sbagli, a lui non è consentito. 

Cosa legge Antonio, quando non è impegnato nella scrittura? Poiché siamo su Thrillernord, c’è spazio anche per gli autori nordici?

Le mie letture sono ad ampio raggio. Sono studio che va dal saggio, alla poesia, alle scienze, allo studio delle lingue. La formazione passa naturalmente anche attraverso i magnifici Chandler, Rex Stout e l’influsso del noir scandinavo ormai è imprescindibile di chi si occupa di romanzo di genere. Stieg Larrson, Henry Mankell fanno parte di molte librerie, compresa la mia. Ma anche Jo Nesbø o Hanne Halt accrescono la fama del genere nordico, in cui i temi sociali sono parte della trama. E come scriveva Francesco De Sanctis, si può imparare anche contemplando il profilo della collina. Magari all’imbrunire, aggiungo, dove i rapimenti sono  suggestioni dell’anima. 

Un grazie da parte mia e da tutta la redazione di Thrillernord!

Loredana Cescutti

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