Uvaspina




 UVASPINA

di Monica Acito

Bompiani 2023

Narrativa, pag.416

Sinossi. È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina si è abituato presto a essere chiamato con quel nome che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto, del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata fin da bambina da un’energia che tiene in scacco il fratello con le sue esplosioni imprevedibili, le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.” Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno. Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra. È proprio sul confine tra la città e il mare, tra la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio, il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue, che sa navigare fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo che dubita di se stesso. La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna: la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio unirà per sempre i loro destini. Una passione assediata dallo scherno e dallo scuorno. L’ambiguità dell’amore fraterno, la necessità dell’ombra perché ci sia luce. Infine una scrittura, quella della giovane Monica Acito, che sa inserirsi con originalità in una grande tradizione letteraria e, mescolando la forza tellurica del vernacolo alla freschezza di un racconto sulla giovinezza, invoca la fame di felicità che abita ciascuno di noi.


Recensione di Francesca Mogavero

Napoli è il ventre di una creatura femminile, umana, bestiale o mitologica (o tutte cose insieme), un ventre che si espande e si restringe, che accoglie per generare e godere, e butta fuori per sgravarsi, purificarsi, per non farsi divorare – a volte tira, attira e spinge nello stesso momento, e un po’ trattiene, un po’ lascia andare, senza mai spezzare completamente il cordone ombelicale.

E Napoli, nel libro di Monica Acito, ci sta tutta. Così anche Uvaspina, a sua volta, è un ventre che inghiotte e ne contiene un altro, che ci schizza in faccia umori, sapori e verità dolci come la delizia al limone e oscure e amare come il nero di seppia; è una grossa pentola in cui il ragù sobbolle piano, poi il fuoco si alza all’improvviso e il sugo sborda, straripa e colora le pareti di rosso rovente.

C’è una famiglia, c’è Chiaia, c’è la Forcella e Spaccanapoli, ci sono i rituali, le usanze e le feste, il malocchio e le benedizioni silenziose, le infanzie, i banchi di scuola e le educazioni sentimentali (talvolta brutali, affrettate, che lasciano lacune e ombre striscianti), ma non solo, perché ogni personaggio, ogni luogo, tema ed elemento ne tira altri come ciliegie che scatenano le voglie, ne chiama altri, trascinandoli in un ballo che si dipana stanza dopo stanza, costruendo un palazzo dorato e opulento di fatti reali, di visioni e desideri. Di storie.

Storie che, per essere gustate sulla lingua, nello stomaco e nel cuore, devono essere raccontate bene, e l’autrice lo sa fare, proprio come il marinaio Antonio, che salva il giovane Uvaspina dal mare affamato e dalla sua stessa fame di amore e cura. Lo salva con la spontaneità dei gesti, dei baci, dell’istinto e dell’affetto, con l’incantesimo delle fiabe e delle leggende locali.

Scoprendo il passato della città, fatto di principesse crudeli, nobili e spettacoli in maschera, scoprendo il corpo dell’altro, saggiandone gli anfratti, le asperità e le curve accoglienti, Uvaspina scopre un po’ anche se stesso, capisce che dal pianto può nascere la cazzimma, ma pure che il processo, talvolta, è reversibile, perché i racconti sono buoni per la notte, per fare sogni gloriosi, ma la vita sa essere più bassa, poco scintillante, pesante e fatale come il piombo, come una trottola che gira, gira e colpisce forte, punge e intrappola in spire di spago e di carne.

E là dove c’è Uvaspina, frutto dolce da succhiare a sangue, c’è anche Minuccia, sorella-luna o forse sorella-sorella sole, perché tutto invade e incendia, rivela e brucia, in un riso disperato: due gemelli nati a mesi di distanza, due metà di uno stesso spirito, che ritrova l’equilibrio solo in un abbraccio ferino che unisce i cocci e spezza le ossa, in uno stringersi di mignoli per tornare bambini.

Il romanzo d’esordio di Acito è uno e infinito,

quarantacinque, fluidi capitoli che potrebbero essere romanzi-gemme a sé, ma che insieme formano una collana iridescente e inestimabile, in cui ogni anello trova il proprio posto e contribuisce in modo fondamentale all’armonia del tutto, al potere delle storie che iniziano dove altre sono appena finite… e viceversa.

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Monica Acito


Monica Acito (1993) è cresciuta in Cilento, tra le gole del Calore e i templi di Paestum. Ha iniziato a scrivere da bambina e fin dall’adolescenza ha collaborato con testate cartacee e online. Dopo la maturità classica si è trasferita nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone, e si è specializzata in Filologia moderna presso l’Università Federico II. Nel 2019 è approdata a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Nel 2021 ha vinto, tra gli altri, il Premio Calvino per la narrativa breve e i suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste letterarie. È docente di discipline umanistiche presso la scuola secondaria di primo e secondo grado.

A cura di Francesca Mogavero

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