A tu per tu con l’autore
La sua opera dimostra una grande passione per la storia e per la sua regione di provenienza, il Veneto. Dopo l’entusiasmo provato nel corso della lettura di “Piero fa la Merica” credo che leggerò anche gli altri suoi libri e sono certa che non mi deluderanno. La mia prima domanda è: quanto tempo e dedizione richiede la minuziosa ricostruzione storica da lei messa in campo per i romanzi?
A me piace molto la narrativa storica, prima di tutto da lettore. La trovo rassicurante, rispetto alla narrativa ambientata nella contemporaneità, che mi pare sempre più complicata e sfuggente, perché trovo che sia difficile capire cosa vi sia di rilevante e di significativo nel nostro presente. In questo senso la documentazione preliminare ricopre proprio questa funzione, ossia fornirmi del “materiale da costruzione” grezzo dal quale partire poi nella definizione dei personaggi e della trama. Credo che nella fase di ricerca vi sia sempre una componente di casualità e di fortuna… A volte mi pare che un libro mi capiti tra le mani esattamente nel momento in cui ne ho bisogno, quando mi trovo in un vicolo cieco. Credo poi che ci si debba imporre una misura nella ricostruzione: in fin dei conti se fai narrativa il dato storico, per quanto coerente e minuzioso, deve essere al servizio della narrazione, e non viceversa, sennò il rischio è di saturare la pagina di dati magari interessanti per lo specialista, ma dannosi per il ritmo e la tensione del racconto. Quindi negli anni ho scoperto che una prima fase della ricerca sta nell’accumulo dei dati, ma poi una seconda fase, più delicata e difficile, sta nella selezione degli elementi necessari al romanzo, e alla conseguente eliminazione di quanto vorresti inserire, ma non è strettamente utile.
Anche se in parte lo svela alla fine del libro, vorrei anticiparlo per i lettori di Thrillernord: per “Piero fa la Merica”, in che modo si è documentato per la ricostruzione dei viaggi oltreoceano di tante persone in cerca di miglior fortuna alla fine dell’Ottocento?
Ho seguito il metodo che avevo già seguito ne “La reliquia di Costantinopoli”, “Prima dell’alba” e altri lavori: parto da uno studio generale sul fenomeno che mi interessa. In questo caso ho iniziato dai saggi curati da Franzina, forse il massimo esperto dell’emigrazione italiana. Studiando questi saggi ho incontrato alcuni aspetti che mi hanno messo su una strada più specifica, in particolare la scrittura dei migranti a casa, e la fondazione delle colonie di migranti italiani nella foresta del Brasile meridionale. Mentre approfondivo quei settori ho incontrato i saggi di Piero Brunello sul fenomeno delle uccisioni dei nativi da parte dei coloni italiani tra fine Ottocento e primo Novecento: quando ho letto quei lavori mi sono detto: “Ecco la storia che stavo cercando”, e da lì è iniziato il lavoro di scrittura.
Nel suo ultimo romanzo, fin dal titolo, è evidente la cura estrema del linguaggio usato, che è uno strano miscuglio di veneto dialettale, unito a una parlata poco più che infantile, dovuta alla giovane età del protagonista, frammista a qualche parola in portoghese “maccheronico”. Questa scelta a mio parere risulta particolarmente felice, aiuta il lettore a calarsi nel personaggio e nella tragica ingenuità di tanta gente del popolo che a quel tempo sognava una vita migliore. Come è riuscito a creare questa particolare alchimia linguistica?
Da quando nel 2009 ho iniziato il mio percorso nella scrittura ho sempre cercato, se la trama me lo permetteva, di non accontentarmi dell’italiano standard, ma di mescolare più livelli linguistici. Questa operazione deriva da più stimoli o necessità. Una prima ragione è privata: i miei genitori non mi hanno insegnato il dialetto quand’ero piccolo, e questo ha comportato una enorme difficoltà comunicativa con i miei nonni, con una conseguente perdita sia linguistica che affettiva. La seconda ragione è letteraria: amo moltissimo i libri di Meneghello, soprattutto “Libera nos a Malo”, trovo straordinari gli esiti che raggiunge nella mescolanza di italiano, dialetto, inglese, latino… E più in generale trovo molto affascinante quel filone letterario del Novecento (che include ad esempio Gadda e Pasolini) che si è opposto alla banalizzazione e all’omologazione linguistica della civiltà dei consumi. Infine direi che, all’interno della narrativa storica, mi piace usare il linguaggio come strumento di connotazione dell’ambiente e del periodo storico. In “Piero fa la Merica” il portoghese approssimativo, il dialetto, le costruzioni sintattiche sconnesse e spezzate sono (spero) uno strumento per aiutare il lettore ad entrare in quel mondo.
In relazione alla domanda precedente, lei è direttore insieme ad Alberto Trentin di una scuola di scrittura definita “ri-creativa”: quanta importanza attribuite all’uso del linguaggio nella scrittura?
In effetti da un anno e mezzo dirigo quella scuola di scrittura, e devo dire che i corsi che abbiamo tenuto fino ad oggi sono stati per me davvero utili e divertenti. Uno degli aspetti su cui lavoriamo di più è proprio la parola. Spesso chi si avvicina alla narrazione si concentra quasi esclusivamente sulla storia, la trama, i personaggi, la contestualizzazione… quando in effetti tutti questi aspetti, ovviamente importanti, costituiscono comunque il 50% del risultato finale, mentre l’altra metà è data appunto dal lessico, dalla sintassi, dalla nostra capacità di dare vigore e personalità al linguaggio che usiamo. Non solo. Sono convinto, per esperienza, che andare in cerca delle parole più adatte al nostro racconto ci aiuti a trovare nuove storie che altrimenti non avremmo mai potuto scrivere. Insomma, la parola non è solo uno strumento al servizio della narrazione, ma è essa stessa un potentissimo motore narrativo, se ci diamo il tempo per interrogarla con cura.
E il valore della storia? Di certo lei è molto legato al passato, ne ha rispetto, ma a suo parere quanto insegna l’esperienza passata ai cittadini di oggi?
Domanda difficile, certo che, a guardarci attorno, appare evidente che, se la Storia insegna qualcosa, siamo complessivamente dei pessimi studenti. A volte credo che sarebbe necessario un cambio radicale di prospettiva, che però è molto complicato, specie nei nostri tempi così pieni di adorazione del presente e di impostazione dell’intera vita sul futuro… A ben vedere la nostra dimensione storica, il nostro “essere storia” è l’unica cosa certa che abbiamo in mano per capire un po’ di più di noi stessi. Il futuro non esiste, il presente è così sfuggente che credo che in pochi ci capiscano qualcosa. L’unica spiaggia sicura è la storia, coi suoi documenti, con le sue testimonianze. È tutto lì, ma non siamo abituati a cercare, e, peggio ancora, nella nostra civiltà siamo educati fin da piccoli a credere che una cosa, non appena invecchia e diventa “inattuale”, perda di rilievo e di importanza.
Piero fa la Merica è appena uscito e immagino che abbia in programma un tour di presentazioni per farlo conoscere, ma sta accarezzando anche qualche nuovo progetto letterario?
Certo che sì: mi piace molto accompagnare un libro appena uscito in giro, farlo conoscere, conoscere chi gli ha dato fiducia, cercare di rispondere alle domande, alle curiosità… Ma tutto questo è secondario rispetto al piacere e al desiderio più grande, ossia quello di scrivere, di costruire un’altra storia, di fare amicizia con un altro personaggio… Ho in testa un paio di idee, al momento una mi chiama più dell’altra, e spero che già questa estate possa metterla alla prova, iniziando a lavorarci. Non posso anticipare molto, ma mi piacerebbe approfondire il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale… vedremo.
Pensa di andare anche nelle scuole, a parlare ai ragazzi non solo come insegnante ma anche come scrittore? A mio parere sarebbe importantissimo, il suo apporto li arricchirebbe parecchio.
In questi anni ho avuto la fortuna di girare molto nelle scuole, già a partire da “Sul Grappa dopo la vittoria”, e fino all’ultimo libro pubblicato l’anno scorso, “Il Moro della cima”. Mi piace entrare nelle scuole con quella veste, che è ovviamente differente da quella che indosso quando lavoro con i miei studenti. Mi piace, dei ragazzi, la loro prontezza a problematizzare. Quando con loro parlo, ad esempio, di Grande Guerra, in realtà non parliamo di date, o nomi di generali. Parliamo di ubbidienza e disubbidienza, di costruzione della memoria, di responsabilità individuali e collettive… cioè di cose che, oltre alla loro profonda dignità storica, hanno una implicazione diretta e direi violenta con il loro presente. Quando riusciamo a lavorare bene attorno a una di queste domande sono davvero molto felice, mi pare di “essere stato di aiuto”, e questo mi gratifica decisamente di più dei premi letterari, che vanno e vengono e che sono inevitabilmente frutto anche di una serie di coincidenze e casualità che è meglio tenersi sempre chiare in mente, se non si vuole correre il rischio di montarsi la testa quando si vince qualcosa, o di deprimersi quando si perde. L’importante è scrivere, possibilmente divertendosi mentre lo si fa.
Grazie per questa lettura, che mi ha aperto gli occhi su nuovi orizzonti creativi in merito alla realtà dell’emigrazione, che in parte già conoscevo, ma che per mezzo dell’indimenticabile personaggio di Piero mi è balzata agli occhi in modo più vivo e reale.
Chiara Forlani
Grazie a te e a voi per questa opportunità. E grazie di aver dato fiducia alla storia di Piero.
Paolo Malaguti
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