A tu per tu con l’autore
Harald Gilbers, la ringrazio anche a nome di ThrillerNord per aver accettato di concedere questa intervista sui suoi libri e in particolare sull’ultimo “Morte sotto le macerie”.
Come mai ha ambientato il suo primo romanzo della serie dell’ex commissario Oppenheimer nel 1944 quando le sorti per la Germania erano segnate e il territorio tedesco era un campo di macerie?
In Germania le nostre lezioni di storia a scuola riguardano molto la fine della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo. Ma degli anni della guerra e delle conseguenze non ne sappiamo quasi nulla. Per noi la storia sembra ricominciare nel 1949 con la fondazione dei due Stati tedeschi. Nella percezione generale il tempo trascorso in mezzo è una tabula rasa, quindi ero molto curioso di sapere cosa fosse successo allora. Pensavo che avrei potuto trovare storie molto interessanti lì. La fine del nazismo sembrava un buon punto di partenza, perché potevo spiegare ai miei lettori i motivi per cui questa ideologia fallì e non avrebbe mai potuto avere successo. Viviamo in tempi pericolosi per la democrazia. Nazionalismo e governi autocratici sono di nuovo in aumento in Europa. Le persone sembrano ansiose di ripetere i vecchi errori. Considero mio dovere oppormi a questa tendenza.
Quando ha scritto “Germania” aveva in mente di creare un ciclo oppure era stato pensato come un libro non seriale?
Avevo chiaramente in mente l’opzione per una serie quando ho iniziato a scrivere. Ma inizialmente non era così ben delineata. Volevo ambientare il secondo romanzo nel 1950 circa e il terzo qualche anno dopo. Il successo del primo romanzo cambiò i miei piani poiché da allora il mio editore tedesco prese a credere maggiormente in me e voleva un secondo romanzo ambientato in tempo di guerra. Quindi mi è venuta l’idea di abbreviare in generale il periodo di tempo tra le storie seguenti. Molte cose importanti sono accadute a Berlino dopo la caduta della città: il confronto tra Est e Ovest, il blocco della parte occidentale della città, la rivolta fallita nella Germania dell’Est, la costruzione del muro di Berlino e la trasformazione della città in un punto caldo per le spie. A questo punto potevo affrontare tutti gli eventi in ordine cronologico.
In Italia, “Germania” è stato pubblicato con il titolo di “Berlino 1944” e col sottotitolo di “Caccia all’assassino tra le macerie” e la parola macerie ritorna anche in “Morte sotto le macerie”: le macerie sono sia fisiche, quelle causate dai bombardamenti, sia psicologiche, ovvero quelle dovute alla sconfitta in guerra. Per quanto tempo queste ultime hanno pesato sulla psicologia tedesca?
La fase delle macerie non è così importante per la psicologia tedesca. Si ricordano di più i bombardamenti aerei catastrofici di Amburgo e Dresda, lo stupro delle donne tedesche da parte dei soldati russi e l’immagine quasi mitica delle “Trümmerfrau”, le donne che aiutarono a ricostruire le città dopo la guerra. Ma tutto questo viene messo in ombra dal successo dell’economia tedesca negli anni ’50. Noi in Germania chiamiamo questo il periodo del “Wirtschaftswunder” (in italiano: miracolo economico).
Per la costruzione del personaggio del commissario Oppenheimer si è ispirato ad una persona realmente esistita oppure ha voluto creare un investigatore ligio al dovere ma umanissimo, anche nelle situazioni più difficili?
Mi sono ispirato a un personaggio immaginario. Nei film gialli tedeschi di Fritz Lang degli anni ’30, “M – Il mostro di Düsseldorf” e “Il testamento del dottor Mabuse” c’è il personaggio ricorrente del commissario Lohmann. Mi chiedevo quale sarebbe stato il suo destino negli anni a seguire se fosse stato ebreo. Questo è stato il punto di partenza di Oppenheimer. Più tardi ho scoperto che il personaggio del commissario Lohmann era di per sé fortemente influenzato dal vero commissario Ernst Gennat, un asso tra gli investigatori delle forze di polizia di Berlino che per primo utilizzò alcune tecnologie forensi avanzate e si ritirò nell’era nazista.
Richard Oppenheimer ha evitato di finire in un campo di concentramento solo grazie a Lisa, la moglie ariana. Era qualcosa di eccezionale ai tempi del Terzo Reich oppure capitava spesso?
L’Olocausto non si è verificato da un giorno all’altro. Centinaia di migliaia di cittadini tedeschi dovettero essere trasferiti nei campi di sterminio, il che rappresentò un enorme problema logistico per i nazisti, che nello stesso periodo stavano combattendo una guerra. Dovevano dare la priorità a chi uccidere per primo. La maggior parte dei campi di sterminio si trovava nella parte orientale occupata e gli ebrei del luogo furono le prime vittime del genocidio. Allo stesso tempo il governo nazista non voleva che esistessero ghetti in Germania. Gli ebrei non dovevano restare alla vista nel paese d’origine. Così gli ebrei rimasti furono smistati in singole case – “Judenhäuser” come venivano chiamate – nelle città più grandi. I nazisti scoprirono presto che il destino degli ebrei nei cosiddetti “matrimoni misti” con gli ariani era una questione delicata. Temevano proteste dei familiari. Quindi le persone in una situazione come quella di Oppenheimer inizialmente avevano generalmente una certa protezione, ma era molto limitata, perché venivano discriminate in molti altri modi. Sembra che il capo delle SS Himmler intendesse utilizzare gli ultimi ebrei rimasti come merce di scambio per i negoziati di pace con gli alleati occidentali. Questo atteggiamento cambiò all’inizio del 1945 con l’incombente sconfitta della Germania. Alla fine tutti gli ebrei rimasti furono deportati nei campi di sterminio. Negli ultimi mesi di guerra potevano sopravvivere solo nascondendosi sottoterra o vivendo sotto falsa identità.
Mi ha molto colpito la scena dove Richard Oppenheimer svolge l’indagine sulla banda dei fazzoletti gialli in bicicletta in una notte gelida. Anche se noi italiani abbiamo visto il film di Rossellini “Germania anno zero” che ha mostrato l’immane distruzione delle città tedesche, le chiedo se anche nel 1949, anno in cui è ambientato questo suo ultimo libro, le condizioni di vita erano ancora così tremende.
Il film di Rossellini è stato in realtà una fonte importante per me, in quanto girato a Berlino. E ci sono anche cinegiornali che mostrano spesso immagini di macerie fino alla metà degli anni Cinquanta. Da quel punto la maggior parte delle rovine furono rimosse e furono costruite nuove case, ma questo processo fu un’impresa enorme che richiese più di un decennio. Ancora negli anni ’60 si vedevano rovine nelle grandi città tedesche. Le condizioni di vita erano pessime rispetto ai nostri standard contemporanei, ma erano comunque migliori che in tempo di guerra. Nel 1949 le condizioni di vita a Berlino furono temporaneamente compromesse dal blocco dei settori occidentali. All’improvviso il cibo tornò a scarseggiare perché tutto doveva essere trasportato tramite un ponte aereo. Ma nei mesi successivi la situazione tornò alla normalità e il razionamento alimentare, in vigore costantemente dall’inizio della guerra, fu finalmente sospeso nella Germania Ovest e a Berlino. La Germania non ha dovuto affrontare solo questa sfida. Ripristinare la produzione alimentare dopo le devastazioni della guerra faceva parte di un problema più ampio per i paesi europei. Il razionamento dello zucchero nel Regno Unito, ad esempio, terminò nel 1954.
In “Morte sotto le macerie” si parla anche del famoso ponte aereo che salvò Berlino dall’isolamento dovuto al blocco voluto dai sovietici per annettersi la città. Quanto è stato importante questo enorme sforzo degli alleati, durato ben 425 giorni, per la città di Berlino e in generale per la Germania?
In Germania il ponte aereo è uno degli incidenti storici meglio ricordati del dopoguerra. Alla fine consolidò lo status di Berlino come parte dell’Occidente. E l’effetto di questo sulla popolazione non può essere sottovalutato. Non volevano umiliarsi davanti al dispotismo di Stalin. Inoltre, gli alleati occidentali hanno dimostrato di essere disposti ad aiutare, anche quando ciò significava per loro costi enormi.
“Morte sotto le macerie” non è un giallo tradizionale ma coniuga stili del noir e dell’hard boiled americano. E’ questa la chiave di lettura migliore per raccontare quegli anni drammatici?
Secondo me, lo stile hard-boiled negli Stati Uniti degli anni Quaranta fu influenzato anche da circostanze sociologiche. I soldati tornarono a casa e la gente si sentì a disagio. Come sarebbe possibile reintegrare nella società civile gli uomini che hanno tolto la vita in combattimento e che sono stati spesso traumatizzati? A quel tempo non era previsto il trattamento psicologico avanzato che oggi è lo standard. Il risultato inevitabile è stato un picco di reati penali. Questo è il tema di fondo affrontato dalla maggior parte dei romanzi polizieschi americani di quel periodo. E le circostanze erano abbastanza simili a Berlino e in Germania. Intorno al 1950 a Berlino operavano più di 40 bande. La vita in città divenne nuovamente pericolosa. Quindi, naturalmente, lo stile hard-boyled influenza in modo prominente nel mio romanzo.
Secondo lei qual è ragione del successo dei noir ambientati in Germania nella metà del secolo scorso e durante il Terzo Reich in particolare? Si può spiegare anche col fatto che essendo una dittatura l’indagine diventa molto difficoltosa e ricca di pericoli?
I romanzi gialli ambientati nelle dittature sono unici. Ci sono molti tabù ideologici che impediscono ai combattenti del crimine di svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Allo stesso tempo, le forze di polizia agiscono spesso come oppressori. Come è possibile la giustizia in un sistema politico criminale? Chi sono i veri criminali, i piccoli delinquenti o i politici al vertice? Ciò rende le storie molto interessanti, ma solo finché anche queste domande vengono gestite adeguatamente dal romanziere.
A proposito, e lo chiedo anche allo studioso di storia, quali sono per lei i migliori ambientati in quel periodo?
Non ho davvero una risposta per questo. Mi astengo consapevolmente dal leggere qualsiasi romanzo poliziesco ambientato nel periodo dei miei romanzi, perché non voglio essere influenzato dalla fantasia di altri scrittori. Semplicemente preferisco fare le mie cose. Quando ho iniziato a scrivere il primo romanzo conoscevo solo “La notte dei generali” di Hans Hellmut Kirst, ma a parte alcuni spunti interessanti lo trovavo poco convincente. Dopo aver terminato la prima stesura di “Germania” ho letto anche un paio di romanzi di Bernie Gunther di Philip Kerr. Allora sapevo di essere sulla strada giusta con la mia creazione, ma va detto che Kerr proviene da un’altra cultura: per i lettori tedeschi i suoi romanzi sono in qualche modo troppo artificiali e non perfettamente riusciti.
Ci sarà un’altra indagine del commissario Oppenheimer?
Oppenheimer avrà ancora molto da fare nei prossimi anni. Penso che ci sia molta strada da percorrere. E continuo a trovare argomenti interessanti. Tutto quello che dovete fare è attendere.
Quali sono per lei i migliori saggi per approfondire i temi trattati dai suoi noir? Anche se devo dire che questi offrono un quadro molto preciso del periodo storico rappresentando con accuratezza tanti episodi storici di grande interesse.
Quando possibile cerco di ottenere diari di quel periodo di tempo. Bisogna stare attenti a queste testimonianze di prima mano, perché non necessariamente dicono tutta la verità, ma sono un buon punto di partenza per comprendere le circostanze. Importanti sono anche gli articoli di giornali dell’epoca. Quando si tratta di libri di storia, penso che autori britannici come Ian Kershaw facciano un lavoro eccezionale. A parte questo, di solito utilizzo una serie di libri di un editore di un’enciclopedia tedesca. C’è un volume per ciascun anno del XX secolo in cui gli avvenimenti più importanti sono presentati in ordine cronologico. Questo mi aiuta molto e mostra in quale direzione dovrei andare con la mia ricerca.
Quali sono le sue letture nel campo del thriller/noir e c’è un autore che le piace particolarmente? C’è qualche autore italiano di noir e qualche noir italiano che le piace?
Mi piacciono molto i romanzi di Martin Cruz Smith con il suo investigatore russo Arkady Renko. Ho anche un debole per il Maigret di Simenon, che in realtà è un contemporaneo di Oppenheimer. Il romanzo italiano che probabilmente è stato più importante per me è “Il nome della rosa” di Eco, perché ero ragazzino quando lo lessi per la prima volta. Ma purtroppo solo pochi romanzi noir italiani vengono pubblicati in Germania. Recentemente ho acquistato una copia della Storia della letteratura poliziesca italiana di Luca Crovi, quindi probabilmente avrò pronta una risposta migliore la prossima volta!
La ringrazio per l’intervista facendole i complimenti per la serie del commissario Oppenheimer, molto interessante e gradita.
A cura di Salvatore Argiolas
Traduzione di Sabrina De Bastiani
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