REAL STORIES IL MOSTRO DI ROMA




Alessandro Gorza


Editore: Giunti

Pagine: 224

Anno edizione: 2024

Sinossi. Roma, 1924. Due ombre si allungano sulla Città Eterna: da un lato, l’ondata fascista che travolge la Capitale con la vittoria alle elezioni del 6 aprile, le ultime multipartitiche prima della dittatura; dall’altro, nei quartieri popolari, nella melma sul lungotevere e nell’erba dei pratacci delle zone semi rurali, un mostro senza volto che rapisce bambine. E anche quando un colpevole verrà individuato, il caso sarà ben lontano dall’essere risolto. Tra delitti efferati, indagini pilotate, pressioni politiche e sete di vendetta, la vicenda di Gino Girolimoni non smette di far nascere interrogativi, ieri come oggi. Perché se è vero che i mostri esistono, non bisogna cercarli solamente nei nostri incubi: alcuni, i più pericolosi, camminano indisturbati per strada, e indossano le vesti distinte dei signori eleganti. Altri, gli innocenti, diventano mostri loro malgrado nei pettegolezzi della gente e nelle pagine dei giornali. Con un racconto preciso e affilato, Alessandro Gorza ci guida dai vicoli popolari alle stanze del potere, cercando di far luce su uno dei casi più rilevanti della cronaca nera italiana, un lungo incubo dove nulla è ciò che sembra. Meglio tenere gli occhi ben aperti.

La storia del mostro di Roma, lontana nel tempo ma molto contemporanea per le reazioni che ha suscitato negli abitanti della città eterna, colpisce non solo per i contenuti e la drammatica perdita di troppe giovanissime vittime, ma per l’inevitabile disamina che si impone a chiunque abbia voglia di approfondire l’accaduto.

L’Italia stava attraversando uno dei momenti storici più tesi e difficili della sua epoca moderna, il Duce otteneva consensi e potere, imponeva restrizioni e non ammetteva pareri contrari, e gli italiani si trovavano davanti al grande conflitto tra ubbidire per non andare incontro a problemi, in attesa di tempi migliori, o ribellarsi, esternare dissenso, per votarsi a una causa che richiedeva coraggio estremo ed estremo sacrificio, spesso anche della propria vita.

In questo scenario, un mostro (perché non vi è nemmeno oggi altro modo per definirlo) prende di mira i bambini della capitale, li rapisce e uccide, impavido e sicuro di sé; li sequestra lasciando alle spalle testimoni e identikit, li uccide barbaramente e non mostra alcun rimorso o intenzione di fermarsi.

Real stories di Kate Ducci

Negli anni tra il 1924 e il 1927, anni politicamente complicati per un’Italia che preparava le basi per un tremendo secondo conflitto mondiale, Roma fu sconvolta da una serie di rapimenti e omicidi di cui furono vittime bambine molto piccole. La prima a essere sequestrata fu Emma Giacomini, di soli quattro anni, scomparsa mentre giocava in un giardino pubblico e ritrovata la sera stessa, con segni di violenza ma senza aver subito uno stupro.

L’accaduto riempì le cronache di tutti i giornali, con la cittadinanza che richiedeva a gran voce la cattura del mostro e lo stesso Benito Mussolini si fece parte attiva per la ricerca dello squallido individuo che stava spaventando i romani e minacciando quella sicurezza che il fascismo dichiarava di voler garantire a tutte le persone per bene, a tutti i devoti a un partito che desiderava solo il bene della comunità.

Le ricerche non ebbero alcun esito e, pochi mesi dopo, un’altra bambina, Bianca Carlieri, venne sequestrata, ma questa volta con risvolti più tragici. Il mostro sembrava aver acquisito sicurezza e la bambina, oltre ad aver subito terribili violenze, venne strangolata e abbandonata come un sacco di rifiuti.

Stessa sorte toccò alla piccola Rosa Pelli, di appena due anni e, a quel punto, le azioni terrificanti del mostro di Roma avevano ottenuto un’eco così forte da attirare al suo funerale una folla immensa, soprattutto dai quartieri più poveri da cui provenivano le giovani vittime; una  folla affamata di vendetta e  giustizia.

Tutto ciò, fece sì che il Duce e i suoi funzionari divenissero sempre più incalzanti con gli inquirenti per ottenere un colpevole, chiunque esso fosse, ma che garantisse ai cittadini quella giustizia che reclamavano e impedissero che la credibilità del regime venisse messa in discussione.

Nonostante ciò, il mostro non ebbe paura e le sue azioni divennero sempre più violente, sempre più spavalde, lasciandosi alle spalle una scia sempre più nutrita di testimoni, che descrivevano un uomo dagli abiti e i modi eleganti, non certo un disadattato o un poveraccio, non certo una persona residente in quei quartieri popolari e poveri nei quali andava a caccia di piccole vittime.

Il 29 maggio 1925 venne ritrovata, morta sul lungotevere Gianicolense, Elsa Berni, di 6 anni, scomparsa la sera prima; il 26 agosto 1925, una bambina di 18 mesi, Celeste Tagliaferro, venne ritrovata ancora viva presso lo Scalo Tuscolano mentre Elvira Coletti, di sei anni, fu trovata vicino a ponte Michelangelo, anche lei ancora in vita; infine, il 12 marzo 1927 venne trovata all’Aventino, assassinata, quella che sarebbe stata l’ultima vittima del mostro, Armanda Leonardi, una bambina di 5 anni.

Tutte le vittime avevano subito pesanti violenze e quelle rimaste in vita si erano salvate probabilmente solo perché il mostro era stato disturbato da qualcosa o qualcuno durante le proprie azioni.

Un caso in particolare, quello di Bianca Carlieri (il cosiddetto delitto della Biocchetta), sollevò, per tutto il mese di giugno del 1924, un’ondata di indignazione nell’intero Paese. Ai funerali partecipò una folla immensa e la stampa non parlò di altro per giorni e giorni finché, quasi come evento salvifico per la reputazione del Duce e dei suoi funzionari, qualcosa distrasse la cittadinanza dall’impotenza di quanto stava avvenendo: l’omicidio del deputato socialista  Giacomo Matteotti, che aveva denunciato l’illegalità delle elezioni che avevano regalato il potere a Benito Mussolini.

Gli inquirenti brancolavano nel buio e sembravano essere ciechi davanti alle innumerevoli testimonianze (anche fornite dalle piccole sopravvissute, o da alcune bambine che ebbero la prontezza di non credere al signore gentile che le invitava seguirlo) che parlavano di un uomo colto e benestante, dall’aspetto atletico e baffi biondi, che non aveva un accento romano ma sapeva muoversi alla perfezione dei vicoli della città.

Nonostante ciò, iniziarono una serie di fermi e arresti provvisori di persone con problemi mentali, invalide, dagli atteggiamenti allarmanti, che risultarono tutte estranee ai fatti, ma non tutte ressero alla vergogna di venir accostate a reati così squallidi, così infamanti.

Amedeo Sterbini fu uno di loro. Si uccise  dopo aver ingerito acido muriatico, per sottrarsi a un quartiere che lo additava quale assassino, che lo temeva e lo teneva a distanza. Nelle sue tasche fu rinvenuta una lettera nella quale si professava innocente, ma dichiarava di preferire la morte a un arresto  che sembrava prossimo.

Tutto ciò non fece che aumentare la necessità di consegnare alla cittadinanza un colpevole, qualcuno che non avesse modo di venire scagionato e che confermasse l’efficienza di un regime all’apice del proprio successo.

Il colpevole perfetto, non conforme alle descrizioni fornite da testimoni e vittime, ma elegante e acculturato, si presentò di lì a poco.

Gino Girolimoni, un mediatore di cause per infortuni, single, amante della bella vita e delle belle donne, fu arrestato e il suo nome finì su tutti i quotidiani. A suo carico, la testimonianza di una tredicenne che prestava servizio presso una famiglia benestante. La bambina dichiarò di essere stata più volte avvicinata da Girolimoni, il quale voleva con insistenza parlarle e consegnarle un biglietto.

La descrizione dell’uomo e della sua vettura condussero velocemente al riconoscimento del mediatore e il suo arresto fu immediato, tra l’acclamazione popolare per una vicenda che vedeva finalmente l’attesa fine, che riconsegnava alla città la sicurezza a cui anelava.

In realtà, le prove a suo carico erano inesistenti, la descrizione per nulla attinente a quella fornita dai testimoni. Girolimoni non aveva i baffi e non li aveva mai portati e il tentativo di avvicinare la bambina era semplicemente dovuto alla necessità di mettersi in contatto con la signora di casa, bellissima donna con la quale Girolimoni aveva una relazione clandestina.

I testimoni vennero pressati affinché riconoscessero in lui, dietro compenso, il colpevole; coloro che lo avevano conosciuto dichiararono quanto anche durante il servizio di leva avesse atteggiamenti preoccupanti; gli inquirenti ignorarono volutamente tutto ciò che lo scagionava, comprese le testimonianze che lo vedevano altrove in concomitanza ad alcuni dei delitti, e Girolimoni venne condannato e recluso in carcere.

Non confessò mai e continuò a professarsi innocente, anche grazie all’avvocato Ottavio Libotte, che lo difese e credé in lui. Nemmeno i quattro mesi di isolamento servirono a estorcergli una confessione che avrebbe fatto il gioco di chi lo voleva in veste di assassino.

La terribile esperienza di Girolimoni finì l’8 marzo 1928, quando venne prosciolto da ogni accusa, grazie alla determinazione del legale che lo aveva assistito e creduto. Le testimonianze raccolte risultarono incoerenti e poco credibili, le prove per incriminarlo si rilevano inventate, e l’imputato venne assolto per non aver commesso il fatto, dopo quasi un anno di carcere e il carico di una vergogna insostenibile.

Girolimoni credé che il suo incubo fosse finalmente finito, di poter tornare a una vita normale, al proprio lavoro e alla riconquista di un rispetto e di una credibilità che gli erano stati sottratti un anno prima.

Ma in realtà il suo incubo era appena iniziato. Il proscioglimento avvenne nel silenzio e la notizia ottenne solo un piccolo trafiletto nelle pagine interne di un quotidiano locale. La sua vita era irrimediabilmente distrutta e, tranne l’avvocato che gli era stato vicino anche durante i difficili mesi di carcere, nessuno volle dargli una mano, tutti non volevano essere associati a lui, i suoi ex datori di lavoro si rifiutarono persino di farlo entrare in ufficio per cercare un chiarimento.

Girolimoni si ritrovò a cercare di sopravvivere per tirare avanti, nell’anonimato e facendo piccoli lavoretti, fino a che non morì e ai suoi funerali parteciparono pochissime persone, a dare un ultimo saluto a quell’innocente condannato per regalare un colpevole a un’opinione pubblica che ne reclamava uno, chiunque esso fosse.

Girolimoni divenne addirittura sinonimo di uomo poco raccomandabile, pedofilo, pericoloso, al punto che le persone venivano schernite con la frase ‘Sei un Girolimoni’, nonostante la persona a cui facessero riferimento fosse indiscutibilmente innocente, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Solo un ispettore di polizia credé nella sua innocenza e lo fece perché era convinto (a ragione) di aver individuato il  vero colpevole, la persona che si era macchiata di quegli orrendi crimini e che continuava indisturbata a pedinare giovani vittime e aggredirle.

Quella persona aveva precedenti, era già stata allontanata dalle località in cui aveva osato sfidare la Legge, ma a niente era servito. Si trattava di una persona protetta, con una solida posizione e agganci illustri e ciò ne rendeva difficoltoso l’arresto.

Non sarebbe giusto all’interno di una recensione raccontare l’epilogo di questa storia o fornirne troppi dettagli, perché lo splendido lavoro di ricerca, che definirei perfetta cronaca giornalistica, svolto da Alessandro Gorza, merita di venire letto fino alla fine, in ogni suo dettaglio, in questo romanzo che rende giustizia a un uomo che è morto nella vergogna e povertà. Inoltre, il racconto di quanto subito da un uomo privo evidentemente privo di colpe, per tutelarne uno che ne aveva di evidenti, spinge a una necessaria riflessione su quanto spesso l’essere umano, soprattutto quando ha paura, sia alla ricerca di una risposta qualunque che lo tranquillizzi, fosse anche una bugia.

Ed è proprio per il desiderio feroce di avere un colpevole che Roma ne ottenne in fretta e furia uno, quello sbagliato, quello che pagherà un ergastolo da libero, l’ergastolo del dolore e del disprezzo.

Alessandro Gorza riesce a rendere benissimo la misura di quel dolore, senza inventare niente, senza romanzare i fatti, fedelissimi fino al minimo dettaglio, e riuscendo al tempo stesso a far trasparire tutta l’umanità e la disumanità che sono state protagoniste di questa vicenda, tanto lontana nel tempo quanto attuale e per questo, probabilmente, ancora più spaventosa.

Il  vero mostro non ha mai pagato e nemmeno tutti quei mostri che si sono divertiti a condannare un uomo innocente, accusandolo del peggiore dei crimini.

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