A tu per tu con l’autore
Quanto della tua esperienza professionale come critica cinematografica ha influito sul tuo approccio alla scrittura e sulla definizione del tuo stile così particolare, che mi ha immediatamente conquistata?
Devo tutto al cinema, perché ho visto così tanti film che il mio subconscio è completamente scombussolato [ride]. Non facevo nulla senza pensare continuamente ai film, e l’influenza principale è stata quella dei film noir d’epoca. Quelli degli anni ’40, nei classici studios di Hollywood durante la guerra. Al tempo le case di produzione non avevano tanti soldi, dovevano girare in bianco e nero, ma avevano attori brillanti come Humphrey Bogart. Mi piacevano i dialoghi, i personaggi, gli intrecci: devo tutto ai film noir.
L’alternanza nei capitoli delle voci narranti dei protagonisti, oltre a catturare immediatamente per la qualità della resa e il thrill dei contenuti, mi ha mosso fin da subito una suggestione riguardo le identità già frammentate dei personaggi e allo stesso tempo in procinto di andare in frantumi. Già a partire da questo presupposto la suspense è davvero alta. Di più ancora, quanto le apparenze, il nostro mostrarci all’esterno sia filtrato da molteplici ragioni e dunque ci restituisca inevitabilmente diversi da ciò che siamo in realtà. Il tuo romanzo permette di vedere entrambe le versioni, l’essere e l’apparire, dei tuoi protagonisti. Come hai gestito la costruzione dei personaggi in tal senso?
Questa è una domanda difficile. Perché io scrivo con l’intuito, cioè non pianifico nulla quando scrivo… Qualcosa sì [ride], ma molto poco. Scrivo e basta e vedo se è buono o no, se non lo è lo butto via e ci riprovo. Come persona pianifico sempre tutto e non faccio mai nulla senza pianificare. Ma quando scrivo sono l’esatto contrario. Scrivo e basta, e il modo in cui Ira, il mio personaggio principale, mi è venuto in mente, ne è un buon esempio. Ero sdraiata nel mio letto, quando l’ho sentita parlare con me. Mi ha detto le prime righe del mio libro. E questo è il motivo per cui ho iniziato a scrivere. Questo dice molto di me come scrittore, è il mio stile, non pianifico.
Mi ha colpito molto una frase del tuo romanzo: Ma per parlare era proprio necessaria un’altra persona? Il tema della comunicazione, anzi l’esigenza della comunicazione, che arriva a travalicare l’interlocutore, fa riflettere anche in relazione al mondo social, dove spesso si parla a tutti e dunque a nessuno. Cosa ne pensi? E cosa ne pensi in relazione a Butterfly, laddove si può dire che la comunicazione sia a più livelli manipolazione?
Poiché il mio libro è un thriller psicologico, ovviamente ho cercato di creare quanta più suspense possibile. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di spaventoso quando qualcuno non dice fino in fondo quello che pensa. L’idea di non potersi fidare di nessuno. E lo ricerco anche nella scrittura: scene, battute in cui qualcuno parla e l’altra persona le crede anche quando non dovrebbe. Questa era la mia intenzione. Quando scrivevo dovevo pensare continuamente su molti livelli: quale è il vero, quale è il detto, quale è l’intenzione?
Clarissa e Ira. La maternità mancata e il furore. Due supernova in rotta di collisione l’una verso l’altra. Due personaggi strepitosi, allo stesso tempo fragili e titanici, argilla e acciaio. Da cosa, o da chi 😉, ti è scaturita l’ispirazione a raccontarle?
Come dicevo, ho sentito la voce di Ira nella mia testa, è così che mi è venuta in mente. Ma non so se Clarissa sia venuta da me. Non so se conoscete il fenomeno degli “psicologi star”, come il Dr. Phil. Ne abbiamo alcuni anche in Finlandia. Volevo scrivere di una psicologa famosa. Una che forse si preoccupa più di essere una celebrità che della sua professione. E Clarissa è così. Mi è venuto in mente perché ho pensato molto a questi terapeuti famosi dei quali non ho spesso grande stima.
Courtesy of Longanesi
A cura di
Sabrina De Bastiani
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