Stéphanie Hochet
Traduttore: Roberto Lana
Editore: Voland
Collana: Amazzoni
Pagine: 144 p., Brossura
Anno edizione: 2024
Sinossi. Un ritratto intimo del grande drammaturgo inglese che l’autrice intreccia con i ricordi della propria esistenza. Cosa è successo nella vita di William Shakespeare tra il 1585 e il 1592, dai 21 ai 28 anni? Nessuno lo sa. Sono questi “anni perduti” che Stéphanie Hochet si diverte a trasformare in una straordinaria avventura letteraria. William, sposato e padre di tre figli, si sente schiacciato dalle responsabilità familiari e sogna di diventare un attore. Decide quindi di fuggire e di entrare in una prestigiosa compagnia teatrale. In un’Inghilterra dove la peste dilaga, il suo destino cambia. Decisivi saranno gli incontri con Richard Burbage, che gli ispirerà il personaggio di Riccardo III, e con l’affascinante Christopher Marlowe.
Recensione di Sabrina De Bastiani
Scorge un teatro immerso nell’ombra che qualche ora prima non era lì. Nella baraonda delle sue emozioni non riconosce quel luogo, il nome gli sfugge, sta sognando? Vede allora un esercito galoppare e sparire nella struttura, monarchi coronati seguono la medesima direzione con incedere solenne, soldati feriti, sfiniti ma fieri, raggiungono a loro volta l’entrata e scompaiono nell’edificio ottagonale. Poi un generale moro in lacrime sui passi di una donna dal volto cadaverico, un vecchio dal nobile aspetto mentre avanza con un bastone accompagnato dalle sue tre figlie, un uomo ilare dalla pancia enorme accorre, tutti inghiottiti da questo luogo che assomiglia a un globo.
* Il Globe: teatro dove furono create e rappresentate numerose pièce di Wiliam Shakespeare a partire dal 1599. All’ingresso del teatro era apposta una epigrafe latina: “Totus mundus agit histrionem” (Tutto il mondo è un palcoscenico).
Verba volant, ma i libri Voland manent.
“William”, mi sia permesso dirlo, anche di più.
Mi impressiona.
Mi insegna.
Una manciata di anni, dal 1585 al 1592, generano un vuoto mai risolto nelle biografie di William Shakespeare, gli storici sono impotenti, i biografi sbattono contro un muro, la scrittrice si delizia, eppure sono gli anni più formativi e fondanti vissuti dal genio di Stratford on Avon, bardo, poeta, attore, drammaturgo, uomo.
Tutto questo in ordine sparso, fuori da cronologia, perché tutto questo William Shakespeare lo è nato.
Hochet, nelle pagine di “William”, racconta questi anni, dividendoli in tre atti.
Non tragedia, non commedia, ma vita.
E così facendo racconta anche un po’ di quella se stessa – ho l’età che aveva Shakespeare quando è sparito e non so ancora cosa fare della mia vita – che si riconosce nei demoni di Shakespeare, al punto da comprenderne motivazioni e gesta, da saperle immaginare perfettamente e perfettamente destituirle di immaginazione per conferire loro realtà.
“Non sapeva dove stava andando ma ci andava”.
Un percorso umano, quello narrato in “William”, che è personale ma condiviso, che è storia dell’epoca passata e dei giorni più vicini a noi, che è profumo e olezzo, verità e finzione.
Passione.
Aspirazione concreta a una libertà che travalica stereotipi e convenzioni, già nel 1585.
Ha una ventina d’anni, Hochet, quando scopre che Shakespeare approfitta dell’ambivalenza sessuale con l’espediente del travestimento per aggiungere complessità e scherzo, piacere e leggerezza a ciò che nella vita reale sarebbe stato severamente condannato: l’usurpazione del genere. Fuori dal teatro, indossare i vestiti dell’altro sesso, presentarsi come un uomo quando si è donna e viceversa vi farebbe condannare a morte. In teatro il travestimento partecipa della norma. Shakespeare trova incredibilmente divertente travestire una ragazza da brioso pastore capace di sedurre un giovanotto. Fa salti di gioia all’idea di turbare il suo mondo. Lo immagino esultare quando mette in scena coppie di ragazzi (hanno tra i sedici e i diciassette anni) vestiti da ragazze che, per necessità di copione, si travestono da ragazzo. Essere un ragazzo, essere una ragazza, è tutta una storiella, guardate come si può passare dall’uno all’altra sotto lo sguardo curioso del pubblico. Perché vi rinchiudete nelle vostre certezze di maschio o di femmina? domanda William.
È proprio ciò che mi seduce in lui, questa libertà delicatamente strappata alle più rigide convenzioni.
Ed è con queste pagine vivide e profonde che Hochet seduce noi lettori.
Fin da bambino William ha il dono e la dannazione del teatro, la capacità di attraversare lo spazio che separa il palcoscenico dal pubblico, l’istinto del viaggio, del movimento, della fuga.
La sospensione più assoluta dell’ incredulità e la dote di saperla trasmettere.
La madre ricordava che, quando aveva tredici anni, era tornato da una rappresentazione affermando che era stato in Italia, perché la pièce era ambientata a Venezia – aveva spiegato John. Voleva convincere i fratelli e le sorelle che in un pomeriggio aveva incontrato un duca di nome Malvolio e che aveva navigato su una gondola in compagnia di una principessa mascherata che si struggeva d’amore per lui. Era talmente entusiasta che i fratelli e le sorelle avevano cominciato a bersi le sue parole come fossero oro colato.
Come può non stare stretto un paese, le mura di una casa, anche la propria famiglia , quando la fiamma che si ha dentro è cosi ardente?
Eppure William ama e non smetterà mai di amare Anne, moglie e madre dei suoi figli.
William raggiunge Anne in un campo di grano.
A metà strada tra Shottery e Stratford, in un luogo che nessuno saprà mai, in un territorio vietato allo sguardo dei biografi, così segreto che è arrivato a noi solo per mezzo di un sogno, due profili celati dal grano si avvicinano. Anne ha ricevuto dei baci, restituito il suo peccato al peccatore che la prega di credergli e il suo corpo non è mai stato così vivo. Si inebria dell’odore dell’amante, divora tutto di lui. Ecco cosa le succede. Molto rumore per nulla e allo stesso tempo per quasi tutto. Il sole li benedice con la sua bruciante indifferenza. Newton non esisteva ancora, né Anne né William sono soggetti alla legge universale della gravitazione. La loro unione espropria il cielo, gli amanti vi si accomodano con agio, la Terra è solo un pianeta tra gli altri. I sacri vincoli del piacere li sorprendono. Il peccato ha una dolcezza persuasiva. Erano vergini, non lo sono più.
Ma il richiamo della libertà che gli evoca il palcoscenico e ciò che accade lì sopra e’ più forte.
Lo è sempre stato.
Il teatro permetteva ogni cosa. Il povero si vestiva da ricco, gli uomini da donne e i personaggi femminili, recitati da uomini, potevano scivolare veloci nei travestimenti più virili. Il ragazzo adorava questi infiniti giochi di prestigio. I costumi di scena erano una porta aperta verso l’immaginazione e le fantasie più segrete. In una società in cui ogni singolo colore, ogni singolo tessuto erano soggetti a regole e destinati a pochi privilegiati, soltanto il teatro permetteva la libertà, la trasgressione, il gioco.
E allora se ne va, William. Senza bruciarsi i ponti alle spalle. Ma se ne va.
Questa fretta istantanea, questo crepitio inventivo è esattamente ciò che spero dell’esistenza. Il mio battito a ritmo del teatro. Questa paura che mi pietrifica prima di salire sul palco, questa impressione che il tempo si sia concentrato in un atomo, che non esista altro, che il passato e il futuro siano soppressi. Rimangono solo il presente più brutale, il mio copione masticato mille volte e i nostri corpi di attori gettati per intero nella fossa. E questa allegria pura che provo recitando, questa sensazione di ebbrezza.
E allo stesso modo fugge anche Hochet.
La seconda evasione è stata la lettura. Leggere, leggere, leggere. Leggere da sola, leggere circondata da adulti, leggere in luoghi senza alcuna intimità, Resistere al mondo degli altri, quelli che non ho scelto, immergendomi nel mondo più ampio della letteratura. Sparisco mentre ascolto le voci di Conan Doyle, Tolkien, Zola, Flaubert, Colette, Balzac… Sono avulsa dal mio corpo.
Seguiamo entrambi, nell’alternarsi degli io narranti di Shakespeare e dell’autrice, nel passato più remoto e in quello più prossimo e nelle intersezioni dello loro due vite tanto diverse, tanto simili.
Hochet, con una scrittura che è allo stesso tempo emotiva, partecipe, rigorosa, sensibile, eccellenza pura, ci spalanca un universo, ci fa viaggiare nel tempo, accanto al bardo e accanto a lei stessa.
E così siamo con William e muoviamo con lui i primi passi di attore – i bravi attori vi fanno tornare bambini. Le emozioni che suscitano sono estreme, violente, e solo a quell’età si percepisce la vita con simile intensità.
Siamo con William quando scopre quella meravigliosa adescatrice, sublime e sifilitica come una vecchia prostituta, che è Londra.
Quale luogo al mondo permette di essere un bruto che fa a botte e un poeta folle di visioni che può amare uomini e donne? Il teatro, Soltanto il teatro. Alla fine del XVI secolo,
quello di Londra è il centro dell’universo.
Siamo con William quando non si piace davanti a un ipotetico specchio – Non amo il mio corpo, i miei lineamenti non sono virili, la mia fronte è sporgente. Come far dimenticare che non sono nato per sedurre gli dèi di Atene e di Roma? – ma scopre di poter essere bellissimo lo stesso Con le parole, Le parole, le parole.
Siamo con William quando incontra quell’immenso attore e quel piccolo uomo che era Richard Burbage e che incarna ciò che più amo negli attori, la capacità di diventare ciò che non si è alla velocità di un gioco di prestigio.
Siamo con William quando incontra quel furioso strepitoso drammaturgo che è Kit Marlowe e vorrebbe dirgli che lo ammira sopra ogni cosa, che è meravigliosa la sua trovata del blank verse. La versificazione senza rima dal ritmo rapido, è l’avvenire.
Forza, mostrami il tuo lavoro,
Will!
Lo stradfordiano estrae un fascio di fogli ingialliti dal suo mantello. George, portami una candela! Grida Marlowe all’oste.
Will, la penna! I tuoi spazi bianchi saranno il mio campo di battaglia.
Siamo con William quando le storie non passano più solo attraverso gli occhi con i quali guarda gli spettacoli o con i quali impara a memoria le battute da recitare, ma entrano nella sua penna per uscirne sulle pagine – Dormono tutti, li sento russare, la notte è tutta per me. Il mondo è svanito, solo il mio foglio è rischiarato nell’alone della candela. Tali tenebre mi permettono di spostarmi nel tempo e nello spazio. Questa notte era la stessa sotto Tito Livio, è la stessa a Verona o Copenaghen in questo momento. Il mio mondo non si riduce né a un paese né a un’epoca. Posso immergermi in abissi che mi sono a priori estranei.
Quando il suo stile cambia e decide di liberare il linguaggio sbarazzandosi della rima. Pentametro giambico di certo, la musica della lingua inglese si svela con questo ritmo alternato di sillabe corte e brevi. La lingua diviene rapida, naturale, ed è esattamente ciò di cui il teatro ha bisogno. Via, quelle vecchie abitudini derivanti dalla poesia latina, William vuole il galoppo inglese. Uno stile che parli al pubblico.
Quando un personaggio gli entra nel sangue e nelle viscere: ha Riccardo dentro di sé. Lo conosce come un fratello. Immerge la penna in un organo furioso e ciò che inzacchera la carta è il manifesto di una viltà degna di nota, la determinazione della genia di un tiranno, e il progetto della sua pièce.
Fino ad allora Will aveva parlato d’amore e i suoi versi avevano incantato orecchie delicate. Ma il tempo è passato, lui non è più quel fiore grazioso che un’ode illuminava come un raggio di sole. (…) Vuole che il testo dica, sussurri, urli cose e lo spettatore affondi il volto in un bagno di crudeltà.
Siamo con William perché Hochet ce lo restituisce così mirabilmente e perché si intuisce che lì c’è un universo: buffoni, nobili, creature fantastiche più o meno spaventose, viaggi, uccisioni, tradimenti, sesso … questo non è un teatro di corte è arte senza stucchevoli pregiudizi, raccontata come cruda realtà. Si rivolge a tutti.
Si rivolge a tutti, già.
Will, we are, dunque.
Will, I am.
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Stéphanie Hochet
Nata a Parigi nel 1975, ha esordito nel 2001. Autrice di undici romanzi e un saggio letterario, ha ricevuto il Prix Lilas (2009), il Thyde Monnier de la Société des Gens de Lettres (2010), e più di recente, nel 2017, il Prix Printemps du roman. Ha curato una rubrica per “Le Magazine des Livres” e collaborato con “Libération”. Attualmente scrive per il settimanale “Le Jeudi”.