Intervista a Björn Larsson




Incontro con Björn Larsson

e la sua “La lettera di Gertrud”


Pensiamo non sia necessario presentare il ns ospite, Björn Larsson, ben conosciuto in Italia per le sue precedenti opere. Quest’ultimo suo romanzo però affronta delle tematiche che oltre ad essere estremamente attuali, trattano di argomenti di grande profondità e che fanno riflettere, che pongono tutta una serie di quesiti ed interrogativi che sono quanto mai divenuti quasi il fatto del giorno, ogni giorno. Quindi, prima di entrare nel vivo della conversazione, vorrei riassumere per grandi capitoli ciò di cui tratta quest’ultimo romanzo di Björn – edito sempre da Iperborea. Il libro, soprattutto nel primo centinaio di pagine, ha un ritmo che si accosta molto ai thriller; dopodichè lascia lo spazio a riflessioni profonde circa il significato di tutta una serie di tematiche, quali l’identità, la libertà, il libero arbitrio, la verità – cioè tutta una serie di situazioni limite delle quali abbiamo parlato anche qualche giorno fa al Salone del Libro di Torino. Tanto che avevamo definito questo libro una sorta di compendio di filosofia, perché al suo interno ritroviamo tutti i dubbi esistenziali che hanno accompagnato ed accompagnano l’uomo – dubbi che paiono quietarsi nell’ultima parte del romanzo, dove ritroviamo il mare, che è un po’ l’elemento che caratterizza parte della produzione di Björn, metafora probabilmente di una tranquillità non dico ritrovata da parte del protagonista Martin Brenner, ma in qualche modo una tranquillità che gli permette nel finale di esprimersi compiutamente, dando una chiusura a tutte le parti del romanzo stesso.

Björn Larsson e Claudio Cattaruzza

Sig. Cattaruzza: iniziamo quindi con il protagonista del romanzo, Martin Brenner, genetista, non credente, che ha una famiglia che potremmo definire ideale – con una moglie medico ed una figlia adolescente, adorata da entrambi i genitori. Incontriamo questa famiglia il giorno in cui deve disperdere le ceneri della madre di Martin Brenner. Qualche giorno dopo, al rientro dal lavoro, Martin riceve la telefonata di un avvocato ebreo, che gli dice che la madre si è affidata a lui per le ultime volontà e per far avere al figlio una lettera, che cambierà per sempre la vita di tutte la persone coinvolte.Ecco, il libro prende avvio proprio da queste prime battute, quando il figlio apprende che la madre non si chiamava Maria, ma Gertrud ed era una dei sopravvissuti dei campi di concentramento. Vorrei anche precisare che al termine del romanzo si trova una bibliografia corposa dei libri letti da Martin/Björn, e lì ci si rende conto di quanto studio e quanto lavoro abbia comportato la stesura di questo romanzo.  Allora comincerei proprio da qui: come nasce, come ti è venuta l’idea per questo libro – e che implicazioni ha avuto per te questo lavoro, che ci hai confessato essere durato dai 7 agli 8 anni…

Björn Larsson: ho iniziato forse addirittura molti anni prima, quando ho lasciato la Svezia a venti anni per andare a vivere a Parigi. Però ancora prima di questo penso ai traslochi di gioventù con mio padre, almeno due o tre volte, con un senso di sradicamento. Tanto che se qualcuno oggi mi chiede da dove vengo, non sarei sicuro di cosa rispondere, perché ho vissuto 15 anni in Danimarca, 1 anno in America, Parigi, Italia … e quindi questo mi ha portato ad una riflessione intorno alla questione dell’appartenenza. Non mi sento ad esempio molto svedese… ancora meno adesso che gesticolo e parlo proprio come un italiano (sorriso) –Questo è sicuramente un percorso personale, ma diventa più specifico ed attinente al ns discorso una volta che vi ho raccontato quanto segue: una decina di anni fa andai a Vancouver per parlare dei miei libri e lì incontrai un docente di letteratura scandinava, che stava preparando un’antologia di scrittori ebreo-svedesi (o svedesi-ebrei, attenzione che l’ordine è significativo e non innocuo!). Aveva letto il mio romanzo “John Long Silver, la vera storia del pirata” e quando io tra i discorsi vari che facemmo gli accennai al cognome della mia famiglia materna, mi sentii dire che avrebbe potuto essere un cognome ebreo, e quindi di chiedere in famiglia notizie certe, in modo che lui poi avrebbe anche potuto inserire il romanzo nella sua raccolta! Io ho incamerato il tutto e alla fine di alcuni ragionamenti ho deciso che no, non voglio fare parte di un’antologia di autori ebreo-svedesi o comunque di un’antologia di autori suddivisa per caratteristiche di nascita, di appartenenza o di identità in senso stretto. Un paio di anni dopo invece scopro che la famiglia da parte di papà è probabilmente di origine vallona. E lì mi sono detto: ma anche se sono il frutto di popolazioni di origine diversa: che cosa cambia, che importanza ha? Questo quindi è sia un mio percorso personale che un discorso più generale… intendo dire che entrambi in egual misura mi hanno portato a questo romanzo, dato che uno scrittore deve annusare un po’ il tempo in cui vive, ciò che esistenzialmente c’è già, ma che ancora non si vede bene… Quindi una decina di anni fa ho iniziato questa riflessione, sommando mie esperienze personali a quanto si andava ancora solo percependo, visto che non c’era ancora ciò che oggi è diventata proprio l’ossessione totale per l’identità, l’appartenenza ad un popolo/ad una nazione… Ma non è la prima volta che un mio romanzo parla di argomenti che, una volta pubblicato, sono diventati di scottante attualità.

Sig. Cattaruzza: perché scegliere se essere – oppure non essere – ebreo e non un altro tipo di identità? 

Björn Larsson: fondamentalmente perché dopo dodici libri e tanto successo, non volevo ripetermi e restare nell’ambito che conosco bene. Ho voluto sfidare me stesso, scegliendo una tematica il più drammatica, complessa, sensibile sull’identità e la scelta come libero arbitrio. Avrei certamente potuto scegliere un altro popolo, penso ai sami o ai baschi, ma ho voluto scegliere ciò che io consideravo il più difficile da affrontare.

Sig. Cattaruzza: ma allora quanto pesa – perché il fatto identitario al di là della storia che ciascuno di noi ha alla spalle, è anche un fatto culturale, cioè una sommatoria di ciò che un tempo si chiamava sovrastruttura, se vogliamo – ecco, quanto pesa questa sovrastruttura sul concetto identitario?

Björn Larsson: eh pesa sicuramente… Per esempio nel ns caso il protagonista è un non credente. Sarebbe stato forse più facile se avesse dovuto convertirsi da una religione ad un’altra religione. A parte che a questo punto avreste letto un romanzo completamente diverso. Avreste letto quasi un romanzo teologico… Per tornare a noi, le sovrastrutture hanno naturalmente il loro peso. Se penso ad esempio ad uno svedese quale io sono (anche se non rispecchio proprio le caratteristiche di questo popolo), mi rendo conto che il mio popolo non ha una lunga storia dietro le spalle. Le invasioni vichinghe e poi bam!, un buco nero fino all’Ottocento. La corte svedese era piccolissima e parlava francese… C’ è stata la migrazione di due milioni di svedesi nell’Ottocento verso l’America. Questi uomini sono diventati completamente americani. Se pensiamo invece agli italiani emigrati in America… beh, sono rimasti italiani!, e questo è dovuto a tutto il back-ground che c’è dietro ad un popolo. E gli irlandesi: stessa cosa. Quindi sì, ciò che hai chiamato sovrastrutture, contano e pesano parecchio.

Sig. Cattaruzza: una caratteristica del tuo romanzo è che non dice mai in che Paese o in che città si svolge. Come mai questa scelta?

Björn Larsson: una scelta importante per me. Volevo rendere il concetto di ciò che si è tentati a credere quando si pensa ad attacchi antisemiti, oppure agli attacchi dei fanatici kamikaze: si tende a pensare che possano accadere a Parigi, ma non a Pordenone, ad esempio. E’ troppo facile, specialmente oggi, dire che questi accadimenti eclatanti e tragici non possono accadere a noi, ma sempre agli altri, altrove. E’ per questo che non ho voluto contestualizzare il luogo esatto teatro del nostro romanzo. Potrebbe essere ambientato in una qualsiasi della città europee, tranne forse in Germania, che non sarebbe proprio possibile, se non altro per il passato di Maria/Gertrud. In questo forse ho fatto proprio un romanzo originale. Per il cibo non era un problema, visto che spaghetti e pizza si mangiano oramai un po’ ovunque. Per il denaro invece è stato un problema, dato che non potevo citare gli Euro o le Corone svedesi, ma mi sono barcamenato, per evitare di identificare un Paese particolare.Un lettore però mi ha fatto notare che sicuramente non è ambientato in Italia, perché Martin ad un certo punto fa un mutuo per acquistare una casa, e lo fa in sole tre settimane! (risata generale).

Sig. Cattaruzza: tornando al concetto di identità, il bisogno di appartenenza e la paura… perché un altro degli elementi che emergono dal romanzo è sempre questa sensazione/situazione di paura e del tentativo di preservare gli altri, le persone care, dalla paura… Che cosa celano questi concetti? Celano quello che stiamo vivendo tutti i giorni, che leggiamo anche sui giornali, che non capita solo in Italia, capita un po’ dappertutto… Stanno in fondo a celare l’odio per chi non ci somiglia, per la diversità? Abbiamo trovato un nuovo nemico? Come vedi questo tipo di aspetto? E in che modo la paura può servire da reazione – passami il termine – positiva, per preservare le persone care e invece può essere oggetto di prevaricazione nei confronti degli altri?

Björn Larsson: è molto difficile rispondere a queste domande. Avevo già trattato l’argomento nel romanzo “L’occhio del male” – è in fondo un romanzo simile, anche se molto meno “denso”.  Però in fondo è la scelta di ritirarsi, rinchiudersi per salvare la propria piccola famiglia, i figli. Se uno vede qualcosa di brutto lungo il proprio cammino, tende a scansarla e ritornare a casa, al sicuro. Ma se tutti dovessimo fare così per restare al sicuro, lasceremmo la porta aperta alle cose brutte. Adesso più che mai dobbiamo avere coraggio civile nella quotidianità, dobbiamo dire le cose lì dove siamo, perché altrimenti il prezzo che dovremmo pagare – e che paga il ns Martin – sarebbe ancora più alto. Forse è stato proprio questo l’errore che aveva indicato Hannah Arendt (politologa, filosofa e storica tedesca, naturalizzata statunitense dopo il ritiro della cittadinanza tedesca nel 1937), a proposito degli ebrei, quando il nazismo è salito al potere. Avevano pensato, in generale: questo passa, come ogni pogrom, ogni persecuzione, anche questo passa. Basta solo chiudersi in casa… E Hannah aveva detto: forse se avessero resistito, se avessero parlato, manifestato contro il nazismo, forse l’Olocausto avrebbe avuto meno possibilità di essere messo in moto. Anche l’indifferenza ha contribuito… quello che dicevamo prima: vedo ma mi scanso per essere al sicuro.

Sig. Cattaruzza: esco un attimo dal romanzo perché le affermazioni che hai fatto mi hanno fatto venire in mente che in Italia si dibatte molto in questo momento sul silenzio degli intellettuali. Sul fatto che ci sono tutta una serie di situazioni e di episodi abbastanza preoccupanti e però c’è il mondo così detto della cultura e dell’intellighenzia che è totalmente assente, tranne che per qualche voce. Oppure quando si muove, lo fa scompostamente, perdendo forse di efficacia. Come pensi che un intellettuale possa incidere sulla realtà che viviamo ogni giorno, non dico solo in Italia, estenderei il discorso al mondo in generale.

Björn Larsson: per me il problema principale degli intellettuali è che non ascoltano. Io ad esempio conosco bene il mondo della cultura francese. Bravissimi, brillanti gli intellettuali francesi, ma il problema è che parlano fra di loro. Non leggono, non ascoltano gli altri, quello che li circonda. E’ per questo che continuo a ribadire che la responsabilità di ciascuno di noi è la reazione nel quotidiano. E’ molto importante di ribadire che noi non siamo sempre d’accordo.

Sig. Cattaruzza: per ritornare al libro: ha una struttura un po’ fuori schema, come dicevamo anche all’inizio. Coraggioso non solo nei contenuti ma anche nella forma. Con diversi cambi di punti di vista. Come mai hai maturato questa scelta, su un argomento che si presentava già di una certa complessità, tra l’altro.

Björn Larsson: volevo che la forma riflettesse lo sviluppo della forma di Martin. La prima parte è raccontata in terza persona, ma sempre dal suo punto di vista, perché è lui che decide chi vuole essere. Invece nella seconda parte – non sveliamo perché e come – lì ha raccontato pubblicamente che la madre era ebrea. E dunque a questo punto non è soltanto lui che decide (il mondo culturale, gli antisemiti, gli ebrei stessi, gli amici, i colleghi, la famiglia), e quindi a questo punto abbiamo accesso alla moglie, alla figlia, all’amico, al collega, ad un rabbino, etc… Arriviamo ora alla terza parte, quando Martin va a incontrare uno scrittore, perché vuole che racconti la sua storia. E questo scrittore, come avrete indovinato, sono io. Il fatto è che Martin è un genetista, uno scienziato. E non avrebbe mai potuto raccontare le sue traversie come un romanzo, sì che la figlia un giorno, possa leggere di suo padre, di un uomo che ha cercato di fare del proprio meglio. Per tale motivo a questo punto c’è bisogno di un romanziere e non di uno scienziato. E alla fine c’è anche una lettera che Martin scrive allo scrittore e così in questo modo abbiamo anche accesso alla fine del romanzo e della storia, tramite la sua voce.

Sig. Cattaruzza: esiste un luogo dove è possibile mettersi interamente in gioco? In questo romanzo in che cosa ti sei messo in gioco? 

Björn Larsson: innanzitutto è stata una sfida scriverlo, questo romanzo. Anche seguire la storia stessa di Martin e capire cosa significa essere un ebreo… e cercare di restare me stesso, senza farmi sopraffare dalla storia e dalla possibilità di dover a mia volta un giorno scegliere se essere o meno ebreo, se le origini da parte di madre venissero confermate… Ma la mia speranza è che almeno i lettori – e succede spesso con i miei lettori italiani – si chiedano se vogliono rimanere le persone che sono diventate, o se preferiscano cambiare. E’ questa la domanda che a mio avviso sia lo scrittore che il lettore deve farsi.

Sig. Cattaruzza: tanto è vero che in molti dei tuoi romanzi, il finale resta aperto…

Björn Larsson: sì, perché è così nella vita. Per esempio, chi avrebbe potuto prevedere 20 anni fa che ora sarei stato qui da voi, parlando in italiano?, che all’epoca non sconoscevo. Tanto che oramai parlo quasi meglio l’italiano del francese.

Sig. Cattaruzza: tornando al romanzo, ci sono tutta una serie di situazioni e di rapporti, in cui si cerca di preservare l’altro. E’ bene avere delle aree intime e di non dire la verità sempre, ma di preservare un’area propria…?

Björn Larsson: diciamo che questo riguarda un aspetto dell’etica religiosa. Io ad esempio sono – in teoria protestante, anche se sono un non credente e quindi noi dobbiamo dire sempre tutto, perché non c’è il perdono. Mentre voi potete anche non dire sempre tutta la verità, tanto poi potete sempre andare a confessarvi! (risata). Sto scherzando naturalmente, però tengo a precisare che il segreto – anche se parte con buone intenzioni – è sempre “autoritario”, una dittatura esercitata da chi detiene il segreto. E subita da chi è coinvolto ma all’oscuro di tale segreto. Pensate ad esempio se lo Stato detenesse un segreto che riguarda i suoi cittadini… non lascia all’altra parte la possibilità di decidere, di agire… D’altra parte, anche la trasparenza totale sarebbe molto complicata, me ne rendo conto…

Sig. Cattaruzza: se infatti andiamo vedere, nel romanzo poi la trasparenza totale creerà dei problemi a Martin e successivamente creerà come un domino ulteriori altri problemi… 

Björn Larsson: effettivamente. Ma forse è per come viene svelata la verità, che tra l’altro Martin si lascia sfuggire in un momento di rabbia, durante una conferenza all’estero, in Canada. E allora subentra la mancanza di fiducia, che ci fa dire che o un segreto lo si svela subito, o forse è meglio tacerlo per sempre…

Sig. Cattaruzza: sono rimasto impressionato dalla parte bibliografica e penso tu abbia fatto un lavoro di studio, preparazione e documentazione immane. Volevo chiederti che cosa ti ha dato tutto questo e se hai ricavato qualcosa di inaspettato che ti ha arricchito.

Björn Larsson: sicuramente ho imparato qualcosa di più sulla tradizione, la cultura e la storia ebrea, che non conoscevo bene. Avevo letto naturalmente parecchio sull’Olocausto, Primo Levi, Hannah Arendt… In un certo senso però avevo letto dei carnefici, non propriamente delle vittime. E poi tante domande mano mano che proseguivo la storia di Martin, anche domande che sono rimaste senza risposte, tipo quelle sul primo ebreo, sulla circoncisione, etc… Forse ciò che ho imparato davvero è di non accettare con facilità le generalizzazioni, ma di essere sempre rigoroso e pronto a ragionare e chiedere conto delle cose.

A fine incontro, resta la soddisfazione di aver potuto prolungare il piacere di rimanere a parlare ancora un po’ di questo romanzo così ricco di significati e tematiche difficili ed al contempo così attuali – ed aver avuto l’opportunità di ascoltare l’autore parlarne in diretta e nella nostra lingua, in modo da non perdere neppure una delle spiegazioni, curiosità ed aneddoti legati al romanzo stesso ed alla vita dell’autore.

A cura di Marina Morassut

 

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