Intervista a Enrico Luceri e Sabrina Marchese




A tu per tu con l’autore


 

Chi ha spento la luce mi ricorda Dieci piccoli indiani di Agatha Christie in cui le vicende narrate avvengono in pochissimi giorni, nel vostro caso tre, come mai avete fatto questa scelta? Scelta che a parer mio funziona molto bene.

EL: Volevamo scrivere una storia che si svolgesse in unità di tempo e luogo, senza un attimo di respiro, senza tempi morti (più o meno apparenti), dove ogni dettaglio ha la sua importanza. Che avesse soprattutto un ritmo, oltre che un’ambientazione e un’atmosfera precisa: un palazzo borghese, tre giorni di gennaio bagnati dalla pioggia e sferzati dal vento di tramontana, dove una poliziotta sembra lottare contro il tempo per fare in modo che il filo sottilissimo di un’intuizione diventi la soluzione del mistero. Una trama priva di pause, che procede inesorabile verso la sua conclusione, poco prima della mezzanotte del terzo e ultimo giorno. Comprimere la storia in pochissimi giorni permette di dare appunto il ritmo giusto alla trama. Di evitare digressioni, elementi che fanno “colore” ma per noi sono inutili e smorzano la tensione, e quell’approfondimento della vita privata dei personaggi che a noi non interessa (e  ci torneremo in una delle domande seguenti).

SM: Ogni rimando come sempre è fortemente voluto. E questo era l’effetto che ci eravamo prefissati di ottenere. Ci sono diversi tipi di gialli, non ultimo il filone thriller o quello psicologico, che richiedono ambientazioni fosche e cupe indagini nei meandri oscuri della mente umana. Ma noi, soprattutto quando scriviamo insieme, preferiamo rimanere sul classico, convinti, per dirla con Miss Marple, che a volte è la vita quotidiana il mistero più grande e per dirla con Sigmund Freud, sempre più persuasi che ognuno di noi, se sottoposto a determinate tensioni, potrebbe facilmente trasformarsi in un assassino. Circoscrivere tutta l’azione in un unico fattore di tempo e di luogo rende tutto questo possibile. L’assassino della porta accanto, per così dire, il tipo qualunque che ti puoi trovare a fianco in metropolitana. Un giallo classico deve essere composto, come una buona ricetta di cucina, da pochi ingredienti di buona qualità dosati con sapienza. Per questo non amiamo sviscerare troppo la vita privata di chi indaga, perché è sempre il crimine a dominare la scena e la logica a farla da padrone. La logica inflessibile di chi uccide per vendicare un torto, per amore, per interesse o per vendetta. Che poi a ben vedere sono facce differenti della stessa medaglia, quella implacabile di un equilibrio compromesso, che richiede un intervento di natura criminale per essere riparato, a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. L’umanità di chi indaga, come avviene qui, illumina la scena in sottofondo, ma non può mai oscurare la logica implacabile della giustizia che si muove, ancora una volta, per ricomporre questa volta l’equilibrio sociale compromesso dal delitto. E la macchina si rimette in moto. Non serve altro, che questo. Motore, scena, azione.

Come è nata la vostra unione artistica? Quando e come avete deciso di scrivere un libro insieme?

EL: Parecchi anni fa, quando ci siamo conosciuti e abbiamo scoperto di condividere la passione per il giallo canonico, calato in un’atmosfera di suspense quasi thrilling. La nostra collaborazione finora ha prodotto due romanzi, quattro racconti e un saggio, e siamo solo all’inizio. Oramai il meccanismo è oliato e collaudato e ci comprendiamo con un battito d’occhi!

SM: Abbiamo cominciato quasi per caso, esaminando una trama, cercando di rileggerla sotto chiavi diverse, proponendo idee, come due appassionati che studiano una partita a scacchi. Ora abbiamo raggiunto una intesa tale che non solo ci capiamo al volo, ma a volte rimane anche difficile anche per noi distinguere chi ha scritto cosa o cosa è venuto in mente a chi. Siamo perfettamente complementari nello spirito che ci muove scrivendo, nelle modalità interpretative di un concetto o di una trama e persino nello stile letterario, uno di quei rari casi in cui uno più uno fa sempre uno, ma compone un’unità diversa. Più intrigante di quando scriviamo a firma singola.

Chi ha spento la luce non è il primo libro che scrivete insieme, mi sono sempre chiesta come si riesca a scrivere un libro con due teste e quattro mani, mi raccontate un po’ come avviene nella pratica?

EL: Sabina e io abbiamo una tecnica consolidata. Partiamo da un mio soggetto originale, di solito sviluppato come una scaletta. Lo condivido con lei, che lo integra come e dove ritiene opportuno. Quando la scaletta, una specie di vera e propria storyboard cinematografica, è divisa in capitoli (con i dettagli della scena, gli abbozzi dei dialoghi, la trama dettagliata, l’ambientazione e l’atmosfera) cominciamo a scriverla. Il nostro stile narrativo, o la forma se preferite, è simile, dunque la revisione per rendere omogeneo il testo è di solito priva di difficoltà.

SM: Questo aspetto incuriosisce sempre molto i lettori, ce ne rendiamo conto a ogni intervista e nel corso di ogni presentazione Partiamo sempre da un soggetto già sviluppato, che poi cresce e prende forma attraverso le reciproche idee e il confronto. A volte diventa un’altra cosa, a volte prende un’altra strada, a volte nasce un personaggio diverso che prende il sopravvento rispetto alle intenzioni originarie, altre volte ancora invece è l’ambientazione ad emergere con maggiore potenza, o un dialogo particolarmente indovinato a conferire tono alla struttura. Le revisioni alla fine sono un puro lavoro di cesellatura, dettagli da definire, qualcosa da mettere a fuoco, un paio di pennellate da aggiustare e poi la corsa verso il finale. Un meccanismo ben collaudato, che ci regala grandi soddisfazioni e soprattutto scorre via veloce. Come una valanga di neve che rotola verso valle.

Aida Colonnese e Gagliardo sono una bella squadra, si completano a vicenda ma della loro vita privata non si sa niente. Ci sarà un futuro per questa coppia così magari li conosceremo meglio?

EL: L’ispettore Aida Colonnese indaga (senza Gagliardo) anche nel racconto “La vera sposa”, scritto da Sabina e me e pubblicato nell’antologia “Tre passi nelle tenebre” edita da Pagliai editore, e tornerà nel 2020 (con Gagliardo) nel mio romanzo “L’angelo stanco”. La scelta di limitare al minimo indispensabile le informazioni sulla sua vita privata è mia: credo fermamente che un personaggio deve svolgere un ruolo, e quello di Aida è appunto indagare. Come sosteneva autorevolmente Giovanni Luigi Bonelli, il creatore di Tex Willer, nei fumetti esistono le didascalie e in un intervallo di tempo fra un’avventura e l’altra il protagonista vive la sua vita privata. Vale anche per i miei personaggi.

SM: Come accennavo prima in un giallo classico il vero protagonista è il crimine, nemmeno l’assassino, ma il delitto in sé stesso. Tutte le altre componenti sono e devono restare puramente funzionali. I fatti vengono illuminati in modo diverso, a seconda dell’umanità, dell’esperienza e della personalità di chi indaga, a cui bisogna solo conferire la giusta tridimensionalità e uno spessore appropriato. In questo modo anche la dimensione privata di Aida Colonnese emerge, un pezzo alla volta, le sue abitudini, la casa in cui abita, le peculiarità che la distinguono vanno a comporre un ritratto, come le tessere di un domino. Un gioco col lettore che potrà ricostruire non solo il delitto ma anche il personaggio.

Sia Solo dopo il crepuscolo che Chi ha spento la luce sono due gialli infarciti di citazioni e riferimenti a vari tipi di opere, oltre immagino ad una vostra passione personale per le opere citate qual è il motivo di questa decisione? Credete che diano qualcosa in più alla narrazione?

EL: Sono un devoto omaggio e una citazione di film di genere, che servono per costruire le scene più “cinematografiche”, che in genere sono quelle più dense di suspense. Quando ho scritto la scaletta che sarebbe diventata il romanzo “Chi ha spento la luce” vedevo scorrere davanti ai miei occhi sequenze del film “La fine è nota” (il personaggio che precipita da un attico), “La morte accarezza a mezzanotte” (la seduta d’ipnosi) e molte fiction televisive ambientate in un palazzo che custodisce segreti mortali. Devo “vedere” la scena per descriverla e l’ispirazione di film di genere asseconda la mia fantasia.

SM: Si tratta di doverosi tributi a chi ha costruito e pavimentato la strada del giallo, verso cui abbiamo un debito di eterna riconoscenza perché prima di essere scrittori siamo stati lettori appassionati e amanti di un genere letterario che non perdona. Tutto deve funzionare e tutto deve essere visibile, eppure nascosto. Da qui nasce anche questo incastro di rimandi e citazioni, solo piccoli messaggi cifrati che amiamo inserire nella nostra trama. Anche questo fa parte del fascino intramontabile del giallo. A cui non sappiamo sottrarci.

Conoscete il genere thriller nordico? Apprezzate qualche autore in particolare?

EL: Ho letto e apprezzato Stieg Larsson e Camilla Läckberg, però il mio romanzo preferito del thriller nordico resta “Lo sguardo di uno sconosciuto” di Karin Fossum (del quale ho ugualmente amato la trasposizione cinematografica italiana “La ragazza del lago”, diretta da Andrea Molaioli).

SM: Sono stata conquistata dal thriller nordico molto prima che emergessero gli ultimi autori noti e ben promozionati, sicuramente è un genere affascinante con dei tratti inconfondibili, uno spessore particolare e ambientazioni suggestive. Un romanzo che amo particolarmente è “Il senso di Smilla per la neve” di Peter Høeg del 1992. Credo che abbia quel tocco di magia che sempre ci deve essere in un giallo, una trama intrigante, atmosfere potenti e magnifici personaggi, oltre naturalmente alla neve. Lo rileggo sempre con piacere e con incondizionata ammirazione.

Enrico Luceri e Sabrina Marchese

Ilaria Bagnati

 

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