Recensione di Salvatore Argiolas
Autore: Tash Aw
Traduzione: Anna Nadotti
Editore: Einaudi
Genere: Narrativa
Pagine: 304
Anno di pubblicazione: 2020
Sinossi. Questa è la confessione di un improbabile assassino. Si chiama Ah Hock e anni addietro, in un angolo buio sull’argine di un fiume, ha ucciso un uomo che non conosceva né odiava. Del suo efferato crimine sono note le circostanze materiali – l’identità della vittima, l’arma del delitto, l’entità e le conseguenze della pena – ma per spiegare i meccanismi spietati e inesorabili che hanno finito per armare il suo braccio, trasformando il bravo figlio di una madre sola, amico affidabile e poi marito fedele, in un omicida, non bastano le carte processuali. La storia di Ah Hock è una storia di piccoli passi e grandi speranze in un paese, la Malaysia, dove la lotta per sopravvivere ed emergere deve fare i conti con un tessuto di tremende contraddizioni economiche, razziali e sociali, e dove è facile restare incastrati negli ingranaggi di una modernizzazione a macchia di leopardo. Dal minuscolo villaggio di pescatori sulla costa occidentale in cui è nato, un puntino accanto a Kuala Selangor che nessun navigatore satellitare saprebbe trovare, il ragazzo si trasferisce con la madre su un pezzetto di terra tutto loro, su cui sudare e sognare come fosse l’Eden, perché «il mare era sempre agitato, sempre lí a contorcersi, deformarsi, rotolare via o sopraffarci. Non eravamo mai certi di niente col mare, ma il suolo, il nostro suolo, era solido». Però anche la terra tradisce, e allora è la volta della grande città, le luci di Kuala Lumpur, i mille lavori, la modesta ascesa, fino ad accorgersi che nella catena del potere esercitato e subíto non è piú lui l’ultimo anello. Quel posto ora è occupato da bangladesi, indonesiani, birmani, schiere di immigrati clandestini senza diritti né futuro, masse indistinte di povera carne spendibile, per alcuni, come il suo vecchio amico Keong, nient’altro che «carichi» da far pervenire vivi all’acquirente. Quando un rovescio di fortuna minaccia di fargli perdere tutto, Ah Hock deve decidere da che parte stare. A raccogliere la sua confessione un registratore, e dietro a quello una faccia, una voce, una storia che non potrebbe essere piú diversa da quella di Ah Hock, e tuttavia speculare alla sua. Sono la faccia, la voce e la storia di un’altra Malaysia, quella che vuole capire, ma per farlo guarda giú dai resort in cima alla collina. Una Malaysia colta, ricca, benintenzionata, estrinseca. La Malaysia che prende la parola, anche se non è la sua.
Recensione
“Noi, i sopravvissuti”, di Tash Aw è un romanzo duro, ma necessario che racconta la parabola esistenziale di un operaio malese portato dalle circostanze a commettere un omicidio.
Questo assassinio casuale, come ne “Lo straniero” di Albert Camus, squarcia un velo sulla condizione umana e sulla situazione critica del mondo contemporaneo.
Strutturato come un’intervista che Ah Hoch, l’omicida concede ad una giornalista, il romanzo si può leggere anche come l’autobiografia di una nazione, la Malesia afflitta da grandi problemi come l’inquinamento ambientale, il cambiamento climatico, lo sfruttamento intensivo della natura, lo sfruttamento intensivo anche degli immigrati e la crescita economica sempre in bilico tra recessione e nuovi successi.
In filigrana si legge anche il destino di tutti noi in quanto la Malesia, che gli italiani conoscono principalmente per il ciclo di Sandokan e dei pirati malesi, è una delle cosiddette “piccole tigri asiatiche”, nazioni che hanno beneficiato del boom economico giapponese che a cascata si è propagato negli Stati vicini, alla ricerca di manodopera a basso o bassissimo costo.
La Malesia per esempio fornisce i due terzi della produzione mondiale dei guanti in gomma e questo è diventato di pubblico dominio durante la pandemia quando è stato difficile trovarli per l’enorme richiesta e l’incapacità delle fabbriche malesi di tenere il ritmo degli ordini.
“Qualche politico in America decide che non possono più comprare guanti di gomma malaysiani e di colpo dieci fabbriche della zona sono costrette a chiudere. Gli europei vogliono salvare il fottuto pianeta e mettono al bando l’olio di palma negli alimenti, così nel giro di mese l’intero porto è in ginocchio.”
“Noi, i sopravvissuti” mostra cosa c’è dietro questo finto benessere che alla fine riguarda soltanto la classe sociale superiore lasciando ai lavoratori solo le briciole e gli scarti della società dei consumi.
Per spiegare il motivo del suo gesto alla giornalista che lo intervista Ah Hoch le racconta la sua vita, costituita da piccole e grandi sconfitte, sempre ai margini del successo ma sempre respinto dalle onde del destino, come quando, dopo aver accarezzato il sogno di diventare un agricoltore vede le sue speranze vanificate da una disastrosa marea primaverile.
Anche quando riesce a trovare un lavoro soddisfacente Ah Hoch si trova a dover fare i conti con forze molto più grandi e travolgenti come la globalizzazione, il razzismo e la corruzione.
“Pur essendo molto giovane, sapevo, come tutti, che non c’era speranza. Eravamo la razza sbagliata, chi ci avrebbe dato una mano? Di sicuro non il governo. Sapevamo che per cinesi spiantati come noi, non valeva neanche tentare.”
“Sono cresciuto condividendo con la gente del villaggio una sensazione di paura degli indiani delle piantagioni, paura che ci contagiassero con la loro povertà, e nelle nostre vite ce n’era già più che abbastanza.”
Per trovare dei sostituti ai lavoratori immigrati, debilitati dagli sforzi e dalle malattie, della peschiera dove lavora come responsabile Ah Hock si rivolge a Keong, un mediatore di scarsa affidabilità che gli presenta un mondo clandestino che non conosceva o faceva finta di non conoscere, quello dei “carichi” come gli chiama il sensale, gruppi di immigrati bangladesi, birmani, indiani e indonesiani disposti a tutto pur di trovare un lavoro.
“I carichi”. Usò come quel termine allo stesso modo del signor Lai quando parlava dei carichi di pesce congelato diretti in città, o della soia e del grano macinati che usavamo per l’alimentazione.
Ma quando lanciai un’occhiata a Keong vidi che non si era accorto di quanto suonava strana quella parola. Non ci vedeva niente di insolito: per lui era un carico. Era lavoro, nient’altro.”
L’omicidio segna il punto d’incontro delle traiettorie di due vite tanto diverse e che non hanno niente a che fare ma che il destino, oppure un sistema economico votato solo al profitto mettono a contatto nel momento peggiore.
Ah Hoch e la giornalista che lo intervista rappresentano due punti di vista della società malese molto diversi; il primo nostalgico e in definitiva pronto ad accettare la situazione politica e sociale mentre la seconda, più moderna e attiva, cerca di ribellarsi e seguendo i suoi intimi convincimenti, rinuncia all’amore di una ragazza borghese e reazionaria.
“Noi, i sopravvissuti” è una lucida denuncia dei mali della società malese che Tash Aw inquadra in una cornice narrativa molto efficace ponendo molti interrogativi impegnativi, ed è uno dei migliori libri letti quest’anno.
Tash Aw
è nato a Taipei da genitori malaysiani di origine cinese, è cresciuto a Kuala Lumpur e ha studiato in Inghilterra, dove vive. È autore del memoir Stranieri su un molo (Add 2017) e dei romanzi La vera storia di Johnny Lim (Fazi 2006), vincitore del Whitbread Book Award 2005 e del Commonwealth Writers’ Prize 2005, Mappa del mondo invisibile (Fazi 2009) e Miliardario a cinque stelle (Fazi 2018). Le sue opere sono state selezionate due volte per il Man Booker Prize e tradotte in ventitre lingue. Per Einaudi ha pubblicato Noi, i sopravvissuti (2020).
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