A tu per tu con l’autore
Eleonora, nella tua coinvolgente prefazione al saggio di Leonardo Sciascia “Breve storia del romanzo poliziesco” metti in evidenza la grande innovazione operata dallo scrittore siciliano nell’ambito del giallo, “Codificare le esistenti regole di stile per arrivare, con i suoi gialli, a sovvertirle, scomporle, rovesciarle, apportando complessità”. Secondo te, qual è il suo romanzo “giallo” più riuscito in questa sua opera di rivisitazione del genere?
Per la sua complessità, e anche mio gusto personale, “Todo Modo”. Un romanzo breve ma estremamente denso, che possiede i caratteri del giallo ma in cui l’attenzione non si focalizza sulla soluzione – che non è mai palesata, sebbene si possa dedurre da alcune indicazioni nascoste nel testo – quanto su aspetti riferiti al contesto.
A cominciare dall’ambientazione che seppur realistica appare perturbante: dall’albergo-ecomostro trasformato in eremo per esercizi spirituali, al bosco silenzioso, intatto, sacro, ma in ultimo violato in chiusura della storia; e tra essi «lo spiazzale» in cui i notabili si riuniscono in preghiera seguendo uno schema che ha tanto del rituale. Qui, la devozione cattolica si intreccia in modo tossico alla politica del malaffare, tra alleanze occulte e l’ombra incombente della corruzione. E occhieggia di continuo il potere segreto – altro topos sciasciano – monopolio dei pochi che governano (male) le sorti del Paese, e come conseguenza, l’ironica e dolente denuncia civile.
Ci sono poi i simboli e i riferimenti, i rimandi letterari lessicali e artistici, le allusioni che rendono l’opera un invito alla complessità che è anche una sfida per il lettore.
Un’opera di ispirazione Borgesiana, che nella mia mente rimanda per un gran numero di elementi a “Il Nome della Rosa” di Eco, un altro grande giallo scomposto.
Sia ne “Il giorno della civetta” sia in “A ciascuno il suo” troviamo due investigatori, uno professionista, il capitano Bellodi, e il professor Laurana, tipico detective dilettante, che non riescono a leggere i segni, i segnali che l’ambiente manda loro ma solo il professore paga a caro prezzo la sua incapacità semiologica (era un cretino), mentre il capitano Bellodi non riesce a far condannare i mafiosi. Qual era, secondo te, il messaggio sotteso a questi due finali inconsueti nel filone giallo?
Inconsueti nel filone giallo, assolutamente consueti per Leonardo Sciascia.
Bellodi è impreparato alla realtà che deve affrontare, ma diviene il primo eroe antimafia in un’epoca in cui la mafia non era nemmeno una fattispecie di reato nel Codice penale; segue i soldi secondo un principio che diverrà una massima per gli investigatori (in carne e ossa); soprattutto è animato da una filosofia profonda fondata sul coraggio e sull’onestà, che ritroveremo in molti eroi (in carne e ossa). È impreparato, dicevo, ma qualcosa intuisce. Ha infatti la sensazione che «qualcosa fosse fuori posto o mancasse: come quando una cosa che viene improvvisamente a mancare alle nostre abitudini […]».
Bellodi perde contro la Mafia, perché il sistema lo schiaccia e il potere nascosto lo marginalizza, ma non è un perdente. Non si arrende, non lascia il campo, anzi – dalla natia Parma – si accorge che qualcosa della Sicilia ormai gli appartiene e decide di tornarvi, anche se sa che «ci si romperà la testa». Perché dovrà imparare a conoscerla, ed è questo il suo messaggio: l’urgenza di impegnare sé stessi perché la verità venga alla luce.
Il professor Laurana ricalca per certi versi il candore di Bellodi, ma con un livello inferiore di consapevolezza. È un puro di cuore, un idealista. Non capisce quanto è più grande di lui l’affare in cui si sta immischiando, e paga a duro prezzo la sua intromissione. È sprovveduto, a tratti sembra perfino ottuso. Comincia a indagare quasi per caso su una vicenda che riprende un meccanismo già noto ai lettori del giallo all’inglese: spostare l’attenzione da un crimine mediante la commissione di altri crimini. Il suo intento non è ristabilire la giustizia, come per Bellodi, ma soddisfare un’esigenza personale, quella di risolvere il mistero. Tant’è che quando scopre chi si nasconde dietro al duplice delitto, non si preoccupa di sporgere denuncia.
Come Bellodi, sarà sconfitto e sarà l’ennesima sconfitta della giustizia contro la corruzione della politica; ma è anche il trionfo dell’incapacità. Sono questi altri temi molto cari a Leonardo Sciascia che con “A ciascuno il suo”, con un pessimismo più acuto ci dice: la battaglia è impari. Il potere nascosto prevarrà sempre e la Sicilia – e l’Italia – continueranno a precipitare nell’abisso del malaffare”.
Pensi che Leonardo Sciascia abbia avuto degli eredi nella letteratura gialla italiana, a parte qualche romanzo di Andrea Camilleri?
Credo sia stato di ispirazione a molti – il primo romanzo del citato Camilleri “Il corso delle cose”, è ricalcato senza alcun imbarazzo su “Il giorno della civetta” e lo stesso Montalbano deve molto al capitano Bellodi – ma non è semplice individuare un erede. La grandezza di Leonardo Sciascia, l’ampiezza della sua visione, il coraggio e l’impegno, la vastità della sua cultura, l’abilità nel giocare con le parole, e la maestria di celare significati profondi dietro frasi disseminate in modo quasi casuale all’interno della sua narrazione, non credo potrà trovare eguali. E questo solo per pensare a lui come narratore. Esiste poi un’eredità da saggista, da politico e perfino da linguista, e non vedo ancora sull’orizzonte qualcuno che possa considerarsi appieno suo erede.
Ma rimane come monito e riferimento costante, per chi si accosta alla scrittura – specie alla scrittura di gialli – con la forza di un pensiero che lo ha già reso un classico del Novecento europeo.
Leonardo Sciascia era un grande ammiratore di Georges Simenon e del suo personaggio più noto, il commissario Maigret. Quali temi hanno in comune questi due grandi scrittori?
Sciascia che – ricordiamolo – celebrò Simenon quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, oltre che trascurato dai critici – scrisse che «non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini come il commissario Maigret». E ancora: «vagheggio uno stato che abbia una polizia come quella guidata da Maigret, intelligente e umana al tempo stesso».
Perché dell’umanità Simenon ha fatto uno dei tratti distintivi del suo investigatore; e nel suo metodo, che è in realtà un’assenza di metodo, troviamo tratti comuni ad alcuni dei personaggi di Sciascia, come l’ispettore Rogas de “Il Contesto”, il Vice de “Il Cavaliere e la morte” (da alcuni considerato il più simenoniano tra i suoi romanzi) e forse anche del capitano Bellodi de “Il Giorno della civetta”.
Maigret non procede per deduzione o per ricostruzioni scientifiche, razionalistiche, quasi matematiche, come alcuni dei suoi illustri predecessori. Invece osserva l’uomo, coglie sfumature e piccoli gesti, dettagli apparentemente insignificanti che vanno a costruire la scena di una vita. La stessa caratteristica degli investigatori di Sciascia, che sono chiamati a svolgere indagini non convenzionali, e devono inferire dal contesto – esplorandolo quindi e arrivando a compenetrane le radici profonde – da quale direzione ha mosso l’atto delittuoso.
Per converso, se per i personaggi di Simenon è importante la dialettica costante tra riflessione e dialogo, e se a scambi anche di poche battute fa da contraltare un’attenta introspezione del protagonista che continua a lungo a meditare tra sé gli argomenti discussi, in Sciascia i protagonisti riflettono in solitario, o non riflettono affatto (come nel caso di Bellodi, o in “Todo Modo” che è narrato in prima) e noi possiamo riuscire a capirli solo attraverso i loro comportamenti e da quel poco che lasciano trasparire all’esterno.
Inoltre, i due autori si discostano per la concezione del male: se Sciascia nella sua visione a sfondo politico-ideologico identifica il male con il potere di dare la morte, nei romanzi di Maigret la morte arriva spesso per ragioni futili, per caso o per la disperazione che assale i suoi personaggi. Se gli assassini dei romanzi di Sciascia generano senso di riprovazione morale, nei romanzi di Simenon arrivano a suscitare pietà, perché l’attenzione si sposta dal crimine, alle sue ragioni, dal reato o dalla lettera della legge, alla dimensione umana.
Nei romanzi di Sciascia, il colpevole non è il criminale ma l’ambiente sociale. E’ stato influenzato principalmente dal “Pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda?
Sciascia definì “Il pasticciaccio” di Gadda come «il giallo più assoluto che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione». Riesce ancora a scuoterci la forza di questa affermazione, così risoluta, perché sembra contraddire una delle caratteristiche del romanzo giallo che ci è più familiare, ovvero arrivare alla soluzione di un mistero. Non fosse che Sciascia, come abbiamo già avuto modo di argomentare, usa il giallo come strumento di indagine sociale, di critica al malcostume, di definizione del contesto. Il disvelamento finale è sempre per lui un elemento secondario.
E che Gadda abbia costruito un intreccio di tale complessità, che dagli ambienti della borghesia romana arriva alla miseria della campagna romana, ma che non abbia ritenuto importante risolvere l’intricata vicenda, deve essere stato per lui illuminante. Perché Gadda aveva interesse a raccontare un ambiente culturale – la società romana al tempo del fascismo, con tutte le sue contraddizioni, come simbolo di un’Italia che ha dismesso i valori in cui lui aveva creduto. Una realtà che si rivela in fondo sfuggente, indefinibile, in ultima istanza inconoscibile, proprio come nei romanzi di Sciascia.
Nella sua “Storia del giallo” Sciascia disapprova soprattutto Spillane ed è curioso che condivida questa posizione con Jorge Luis Borges che si scagliò contro l’irruzione del realismo nel genere: “Attualmente, il genere poliziesco è decaduto molto negli Stati Uniti. E’ diventato realista, di violenza, di violenze sessuali anche” scrive Borges mentre Sciascia stigmatizza Spillane perché “In un solo racconto abbiamo cocainomani, omosessuali, lesbiche, qualche casa equivoca” come se li avesse inventati lui.
Non trovo sia curioso che condivida l’opinione di Borges, suo Maestro, e credo che esprimano una scuola letteraria che considerava il giallo/poliziesco uno strumento con finalità differenti da quelle degli autori degli hard boiled americani. L’irruzione del realismo nel romanzo giallo, nella loro visione, è un’involuzione del genere; una distrazione da quella che considerano la sua funzione principe.
Negli hard-boiled americani degli anni venti-trenta del Novecento trovano spazio la violenza, il sesso esplicito, il crimine descritto senza edulcorazioni. Ritraggono brutalmente la realtà dei tempi, anche perché – di fondo – perseguono un fine differente da quello di Sciascia. Non hanno intenti moralistici o di impegno civile; mirano (e con successo) a intrattenere; ad accontentare un nuovo pubblico di lettori e una nuova schiera di editori interessati alle vendite più che ai contenuti.
Sciascia, per le ragioni che abbiamo già esaminato in precedenza, non può considerare eroe (nemmeno letterario) chi si erge a giustiziere, chi agisce al di sopra dello Stato: un «delinquente che si trova dalla parte della legge» come il Mike Hammer di Spillane.
Come mai Sciascia fu così critico della svolta realista del poliziesco d’azione che, come scrisse Chandler, “ha tolto il delitto dal vaso di cristallo e l’ha gettato nei vicoli”?
Gli hard-boiled agli occhi di Sciascia sono responsabili di uno scivolamento del genere poliziesco verso un’involuzione di stile e contenuti.
Da una narrazione inserita entro schemi precisi, che come un gioco enigmistico avvince il lettore e lo porta ad assumere un ruolo attivo, stimolandone la riflessione in vista della soluzione del caso, si arriva a una narrazione emozionale, umorale, infarcita di particolari scabrosi, che catturano l’attenzione, avvincono, ma da cui il lettore si lascia portare in modo del tutto passivo.
Per Sciascia si tratta di una perdita di qualità. Il giallo vede venir meno il suo valore letterario – e di letteratura “alta” – per diventare semplicemente un prodotto commerciale.
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