Real Stories: A sangue freddo di Truman Capote




A cura dell’autrice Kate Ducci

Kate Ducci (Radix) è autrice dei thriller “Le conseguenze” “Le apparenze” e “Le identità” e dell’antologia “La verità è una bugia”, una raccolta di quattro racconti di generi che spaziano dal thriller al fantastico.

 

 

 

 

Truman Capote, pseudonimo di Truman Streckfus Persons (New Orleans, 30 settembre 1924 – Bel Air, 25 agosto 1984), è stato uno scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e attore statunitense. Molte delle sue opere sono oggi riconosciute come classici della letteratura, fra queste il romanzo “Colazione da Tiffany” (1958) e il romanzo ispirato a una storia vera “A sangue freddo” (1966), che l’autore stesso definì ‘un romanzo verità’. E la verità che sta dietro questa drammatica storia è così crudelmente incredibile da doverci ricordare, in ogni pagina che leggiamo, che la realtà sa essere più malvagia di qualsiasi opera di fantasia e che al male, molto spesso, non esiste una spiegazione logica, magari inaccettabile sul piano umano, ma quanto meno comprensibile su quello del bieco interesse.

 

Sinossi. Si tratta probabilmente del primo “romanzo-reportage” o “romanzo-verità” della storia della letteratura. Affermando il valore preminente dell’imparzialità della cronaca e dell’oggettività dei fatti, Capote volle denunciare l’impotenza della forma del romanzo “classico” nella riflessione sulla realtà cruda e complessa della società americana contemporanea. Il libro suscitò vive polemiche di carattere letterario ed etico-sociale: Capote fu accusato di una sorta di cinico voyeurismo, per come riporta, con un distacco oggettivo, un brutale e cruento fatto di cronaca nera. Il romanzo uscì inizialmente in capitoli separati, pubblicati a distanza di tempo, e il ballo in maschera “Black and White Ball” al Plaza Hotel, definito il “ballo del Secolo”, con cui Capote decise di festeggiare l’ultima puntata, commentato in prima pagina da tutti i giornali, divenne subito un evento-icona. Per diverso tempo, lo scrittore fu una presenza fissa sui rotocalchi e in televisione. Il romanzo fu scritto a seguito di una assidua frequentazione dei protagonisti reali della vicenda e segnò talmente l’esperienza artistica ed umana di Capote, da rimanere l’ultima sua opera portata a termine.

 

 

 

 

Real Stories

Herbert Clutter era un benestante agricoltore di Holcomb, Kansas. Insieme a sua moglie Bonnie Clutter e ai quattro figli (di cui i due più piccoli, Nancy e Kenyon, ancora residenti con lui) formava una delle famiglie più rispettabili e rispettate della comunità. Le testimonianze di chi lo aveva conosciuto parlavano di un uomo tutto d’un pezzo, un grande lavoratore americano, instancabile, che aveva fatto di una passione un lavoro con altissimo rendimento economico. Era un uomo severo, fervido credente, ma al tempo stesso buono e impegnato in opere di beneficienza in soccorso dei più poveri. La figlia più piccola, Nancy, promessa dell’equitazione, era una ragazza bellissima e buona, una sorta di principessa della porta accanto, innamorata di un ragazzo che suo padre non vedeva di buon occhio, a causa della diversa fede religiosa, ma che accettava per amore della sua bambina.

Non tutto era perfetto in casa Clutter. Bonnie, infatti, soffriva di una profonda depressione, iniziata all’epoca della nascita dei primi figli. Ma Herbert non si era lasciato scoraggiare e aveva provveduto, con l’aiuto delle tre figlie, a tirare su una famiglia modello, a non fare mancare ai suoi quattro bambini amore e presenza. Al momento della loro morte, Nancy, ottima sportiva e studentessa esemplare, ricopriva il ruolo di donna di casa, faceva da mamma a Kenion e aiutava il padre nell’opera di assistenza ai più bisognosi della comunità.

 

 

È per questa ragione che quanto accadde nel novembre del 1959 sconvolse tutti gli Stati Uniti d’America, lasciando un segno indelebile non solo nel cuore di chi aveva conosciuto i Clutter.
Ma cosa accadde davvero quella tragica notte? Capote ci conduce per mano, offrendoci un ordine cronologico e spietato dei fatti, privato a tratti di un’umanità che gli costò accuse di sciacallaggio infondate. L’autore, senza forse rendersene inizialmente conto, stava aprendo le porte a un genere letterario nuovo, per cui le menti ancora bigotte e perbeniste non erano preparate: la cronaca che diventa romanzo, la realtà che viene privata di fronzoli per renderla meglio digeribile.

La mattina del 15 novembre 1959, una vicina di casa di Nancy, nonché sua carissima amica, si fece accompagnare dal padre a casa dei Clutter, per andare con loro alla messa domenicale. Nessuno arrivò ad aprirle la porta, nonostante l’insistenza, così la ragazza, accompagnata dal padre e da una coetanea, decise di entrare.

Ciò che vide, la segnò per sempre, impedendole per anni di ricominciare a vivere una vita normale, che non fosse ancorata a un passato mai più in grado di tornare, senza l’aiuto psicologico necessario di qualcuno che l’aiutasse a curare quell’immotivato senso di colpa che a volte attanaglia chi sopravvive senza colpe, chi perde qualcuno che ama e vorrebbe vedere morire in sé ogni spinta vitale, leggendo in essa un egoistico tentativo di andare avanti.

 

 

 

 

Herbert era morto, nello scantinato della sua bellissima casa, a pochi metri dal figlio più piccolo, legato e imbavagliato. Nancy aveva perso la vita nel suo letto e sembrava stesse dormendo beatamente, mentre Bonnie era stata uccisa in bagno, probabilmente ben consapevole di quanto stesse avvenendo al resto della sua famiglia, giustiziata a sangue freddo a pochi passi da lei, legata a una sedia e impotente.

All’inizio, la polizia pensò a qualche regolamento di conti. Ma Herber era un uomo talmente per bene da non avere ombre nel suo passato, nessun conto in sospeso, nessuno che potesse odiarlo a tal punto. Inoltre, come tutti sapevano, non era solito custodire soldi presso la sua abitazione: cliente ben noto della banca locale, vi si era recato la mattina stessa per stipulare un’assicurazione sulla vita, che proteggesse le persone a cui più teneva.

Successivamente, le colpe ricaddero sul fidanzato di Nancy, che poche ore prima dell’omicidio era stato a casa Clutter e aveva passato la serata a guardare un film in TV. Il ragazzo, un’altra delle vittime psicologiche di questa tragica storia, fu tolto dalla lista dei sospettati dopo pochi giorni, ma ci vollero anni prima che riuscisse a perdonarsi per essere sopravvissuto. Racconterà gli istanti in cui abbandonò la casa della sua amata Nancy dicendo di essere perseguitato da un pensiero: al momento di andarsene, aveva percepito qualcosa di strano. C’era qualcuno che lo stava osservando, nascosto da qualche parte, come gli inquirenti riuscirono a scoprire in seguito, ma lui si sentì solo a disagio e non riuscì a perdonarsi per non avere dato voce a quella che aveva inquadrato come una stupida paura.

 

 

 

 

Il tempo passava inesorabile, gli inquirenti non si davano pace perché vedevano sfumare la possibilità di risolvere il caso. Non era stato rubato qualcosa in casa Clutter, solo una stupida radiolina senza valore alcuno e i pochi spiccioli presenti nel portafogli di Herbert. Persino l’anello di Nancy venne ritrovato, nascosto in fretta e furia dentro l’armadio. Ciò fece pensare a chi investigava, che la ragazza si fosse resa conto di quanto stesse accadendo al piano inferiore e avesse tentato di salvare, da quella che credeva una rapina, l’unico oggetto a cui tenesse davvero: l’anello che le aveva regalato il fidanzato poco tempo prima.

Anche Capote, da semplice osservatore, cronista, si trasformò ben presto in un cacciatore di verità, ossessionato dal bisogno di scoprire cosa avesse portato a uccidere un’intera famiglia a sangue freddo, sparando in testa a ogni singolo componente, senza la minima pietà ed esitazione. Il tutto per pochi soldi e una radiolina portatile.

 

 

 

 

 

Gli assassini, perché gli inquirenti furono certi fin da subito non si fosse trattato di un’azione commessa da un uomo solo, erano svaniti nel nulla, senza lasciare tracce di alcun tipo.

Ma avevano fatto un errore. Uno di loro, Richard Hickock (28 anni), la mente della coppia (per quanto l’esecutore materiale del crimine fosse stato l’altro, Perry Edward Smith – 31 anni) aveva commesso una imperdonabile leggerezza. Entrambi ex galeotti, si erano conosciuti nel carcere in cui erano detenuti per banali furtarelli. Il compagno di cella di Richard aveva lavorato per un periodo quale mezzadro presso i Clutter e aveva parlato del suo passato, tessendo le lodi e le capacità economiche di Herber Clutter. Allora, probabilmente per farsi vanto agli occhi di Richard Hickock, parlò di una inesistente cassaforte piena zeppa di soldi, custodita nello studio di Herbert.

Ma il destino stava già tessendo una rete crudele e precisa: fu quella leggerezza, quella stupida bugia raccontata in un momento di noia, a decretare il destino di quattro persone innocenti.

Gli assassini si dileguarono subito dopo il furto e, a corto di soldi, fuggirono in Messico per poi tornare in Florida e poi di nuovo in Kansas, commettendo piccoli furti e vivendo di espedienti.

Catturati dopo sei settimane di latitanza per un banale, ennesimo, furto d’auto, confessarono il crimine addossandosi l’un l’altro le colpe, fino al momento in cui il giudice stabilì la pena di morte per entrambi.

Non chiesero mai scusa, non mostrarono sensi di colpa o ripensamenti. Cercavano soldi, ne avevano bisogno e in quella casa ve ne erano in abbondanza. La logica imponeva loro di agire. E la morale? Del tutto assente, persa nella logica dell’interesse, del bisogno di denaro sufficiente per avere una vita agiata. Non mancavano loro cibo, uno stipendio, una casa, ma volevano essere ricchi, a qualsiasi costo.

 

 

 

 

Come si introduce l’autore in questa triste storia di cronaca? Per caso, come per caso i Clutter furono scelti quali vittime di un crimine inaccettabile.

La mattina del 16 novembre 1959, Capote lesse sul ‘New York Times’ un trafiletto di cronaca nera.

La notizia raccontava dell’omicidio di Herbert Clutter (24 maggio 1911 – 15 novembre 1959) un agricoltore benestante del Kansas, della moglie Bonnie (di 45 anni) e di due dei suoi quattro figli, Nancy (4 gennaio 1943 – 15 novembre 1959) e Kenyon (28 agosto 1944 – 15 novembre 1959).

Le altre due figlie più grandi della coppia, Eveanna (26 giugno 1936 – 5 ottobre 2019) e Beverly (8 giugno 1939 – 19 aprile 2010) già erano sposate e residenti altrove.

Prima che i responsabili della strage fossero catturati, Capote decise di arrivare sul luogo per indagare e scrivere del tremendo crimine. Fu accompagnato dalla sua amica d’infanzia, e scrittrice, Harper Lee: assieme interrogarono a lungo le persone del luogo e gli investigatori assegnati al caso.

Capote trascorse sei anni a lavorare al libro, un lavoro che segnò un passaggio fondamentale nella storia della letteratura, che mostrò quanto un romanziere potesse trasformarsi in un cronista unico, sincero, un investigatore che avanza ipotesi mettendole su carta, che incontra i protagonisti e ne ascolta resoconti e timori.

Ciò che Capote non sapeva, ma di cui gli investigatori dei crimini più atroci erano ben a conoscenza, è che certi crimini sono subdoli, non hanno come vittime solo coloro che vengono uccisi o i parenti più stretti. C’è un sottobosco di persone, tra cui finirà lo stesso autore, a pagarne pesanti conseguenze emotive, compiendo quel passaggio imprecisato ma pericoloso, che porta dalla semplice curiosità e dal desiderio istintivo di giustizia, a un affetto forte, quasi ossessivo, per quelle persone che hanno perso la  vita.

Truman Capote, che fu incapace di portare a compimento altri lavori dopo la stesura di questo bellissimo romanzo, fu solo l’ultima delle vittime di una strage stupida quanto spietata. Prima di lui, gli stessi investigatori vennero attanagliati da una morsa oppressiva che impediva loro di pensare ad altro, che stravolse le loro vite e andò oltre le responsabilità professionali. Il fidanzato di Nancy Clutter e la migliore amica della ragazza, incapaci a loro volta di sopravvivere emotivamente alla vicenda, si strinsero in quella sorta di legame inspiegabile che porta i sopravvissuti ad avvicinarsi. Trascorsero mesi a camminare fianco a fianco, in silenzio, tra le campagne in cui Nancy aveva cavalcato in sella alla sua amata cavalla, senza parlare molto, incapaci di dare voce a un disagio, ma bisognosi di non sentirsi soli.

Lo straordinario lavoro di Capote fu utile anche a questo: fare comprendere al mondo che chi sopravvive non è salvo, ma spesso condannato a sua volta, che serve un supporto psicologico per aiutare una persona a non sentirsi in colpa per essere viva.

 

 

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