ZOCCA NOIR. Intervista a Antonio Pennacchi




ZOCCA NOIR

 

La due giorni in Appennino, dedicata al romanzo di genere

 

Leggere la realtà con uno sguardo noir, passarla al setaccio e offrire delle risposte attraverso la lente attenta della narrazione d’indagine (e non solo). È questo l’intento della Festa Cantiere Zocca Noir, organizzata dal Comune di Zocca e dall’Associazione “Giardino filosofico e inventificio poetico”, giunta quest’anno alla sua quinta edizione.

La scelta del termine “cantiere” non è affatto casuale – sottolinea Loriano Macchiavelli, nel discorso di apertura del festival – perché non si tratta solo di un’occasione per presentare romanzi eccellenti, quanto piuttosto di un momento di discussione e confronto (anche informale, durante i “Pranzi con l’autore”), per comprendere meglio il mestiere dello scrittore e le dinamiche attraverso cui il romanzo di genere si fa specchio e metafora dell’attualità.

Se poi vogliamo allargare il perimetro e mantenere una visione aperta del mondo, “in fondo tutto è noir” – osserva Sabina Macchiavelli. – “Non solo la letteratura, ma anche la musica, la fotografia, la Storia”. Ecco perché la Festa si apre con l’inaugurazione di “Sguardi Noir”, una collettiva per ospitare le mostre fotografiche di Fabrizio Carollo (“The Dark Kingdom”) e di Roberto Cerè (“In viaggio fra me e te”). Ecco perché include anche il concerto del bluesman Roberto Menabò, con la narrazione in musica delle sue “Mesdames a 78 giri”.

Tanti (e complessi) i temi affrontati in questa intensa due giorni nell’Appennino modenese, tanti i punti di contatto tra gli ospiti di Zocca Noir, dal padrino del Festival, Loriano Macchiavelli, a Ilaria Tuti e Andrea Cotti, da Antonio Pennacchi a Valerio Varesi. Come l’importanza di ricordare la Storia e il nostro passato, per trovare un’alternativa nel presente. Come la presa di coscienza che il male non si annidi solo nelle grandi metropoli, ma anche nelle piccole comunità. E poi, ancora: l’analisi dei meccanismi che scatenano la paura, la comprensione del reale, il non sottrarsi alla ricerca della verità, intesa come responsabilità civile.

Se l’obiettivo del Festival era quello di fare cultura, di sdoganare un genere, di avviare una riflessione sulla parte più oscura – noir, appunto – della Storia, della società e dei nostri tempi, se l’obiettivo era lavorare insieme per cercare una chiave di lettura, per capire meglio la realtà a partire dalla scrittura (e dalle altre arti), coinvolgendo nel dibattito tanto gli ospiti quanto il pubblico, non abbiamo dubbi: è stato raggiunto.

 

Photo Credits: Roberto Cerè

Gallery su Millecolline: www.millecolline.it/wordpress/2019/07/12/zocca-noir/

Zocca Noir: http://festacantierezoccanoir.blogspot.com/

 

 


LE INTERVISTE

 


Parliamo de Il delitto di Agora. Una nuvola rossa. All’inizio del romanzo, lei scrive che questo libro non lo avrebbe voluto fare. Ma poi il romanzo l’ha scritto, anzi ne ha scritti due: Il delitto di Agora esce a distanza di vent’anni da Una nuvola rossa, con un finale diverso. Perché?

Quando il mio editore mi propose di scrivere Una nuvola rossa, romanzo basato su un fatto di cronaca nera, particolarmente efferato [l’omicidio dei fidanzatini di Cori, N.d.R.], all’inizio mi rifiutai. Perché non solo non sono un giallista, ma nemmeno sono un lettore di gialli. Il giallo non mi è mai piaciuto, nemmeno i film crime, di tensione, che invece piacciono a mia moglie. Mi mettono ansia. Quando lei vede Chi l’ha visto?, io scappo da un’altra parte. Quindi era un libro che io non volevo fare. Poi, invece, decisi di farlo quando un mio amico giornalista mi ha dato da leggere i verbali delle testimonianze. Sono rimasto colpito dal linguaggio dei testimoni, dal fatto che ognuno dicesse una cosa diversa. Mettendo insieme i diversi punti di vista, ne usciva il quadro di un paese – Agora, nella finzione letteraria – rappresentativo di tutti i paesi d’Italia. Poteva accadere a Zocca, o in qualunque altro posto. La vita della comunità, il modo di vedere degli abitanti, esce dalle chiacchiere da bar. Così, mi sono convinto a scrivere questo romanzo. Solo che del finale della storia non sono mai stato convinto del tutto. Non ero riuscito a trovare l’assassino. Gli investigatori e i giudici invece sì, ma io non ero convinto che fosse quello già allora. E poi non mi convinceva come avevo chiuso il romanzo. Ci ho messo vent’anni per capire com’era andata e ho deciso di riscrivere alcune parti della storia, inclusa la fine. Il risultato è appunto Il delitto di Agora. Una nuvola rossa… Fatto sta che è stato condannato a trent’anni di galera uno che secondo me era assolutamente innocente. Non sono riuscito a capire chi era il colpevole, ma sono riuscito a capire che non era quello. E, soprattutto, sono riuscito a capire come è potuto succedere. Ma non posso dirvelo, se no poi vi rovino il finale.

 

Photo Credits: Roberto Cerè

Al di là della vicenda giudiziaria, del caso poliziesco in sé, quello che il romanzo indaga veramente è la natura umana, le dinamiche di paese. E soprattutto la soggettività, la relatività dei punti di vista, è così?

Non essendo io un giallista, Il delitto di Agora non è un giallo canonico, contravviene alle regole del giallo. Oserei dire piuttosto che è un anti-giallo, che alla fine ha scontentato sia i miei lettori abituali – abituati a leggere storie dell’Agro Pontino, della bonifica, del fascismo – sia i lettori di gialli. Nella narrazione della vicenda non viene rispettato il patto tra scrittore e lettore di gialli. Non vengono dati indizi, che lascino capire chi è il colpevole, non ci sono colpi di scena, non si capisce chi sono i “buoni” e chi sono i “cattivi” e la giustizia alla fine non trionfa, non è vero che il delitto non paga. Il male è dappertutto, non sempre si possono individuare i “cattivi”, perché dentro ognuno di noi c’è il bene e c’è il male. In certe condizioni storiche, sociali, economiche, in certe circostanze, il male può prevalere. La stessa persona che in certe condizioni può salvare delle vite, in altre condizioni invece può uccidere. Il punto è che quello che mi interessava indagare era l’inconoscibilità del reale. In questo senso, è più un romanzo filosofico. Parla della soggettività della testimonianza. Non solo oggi, ma nella Storia. Prendiamo Nerone e Caligola, ad esempio, che conosciamo solo attraverso le testimonianze di Tacito e Svetonio. Eppure, per la plebe, Nerone e Caligola erano bravi. O prendiamo un qualsiasi incidente stradale: non ci saranno due testimonianze uguali. Ogni testimone racconta in modo diverso la verità, la racconta dal proprio punto di vista. Noi non vediamo che una porzione del reale, quella che ci interessa. Ecco perché la conoscenza del reale è fallace, a volte ai limiti dell’impossibile.

 

 

 

Dal guazzabuglio delle testimonianze, quindi, nasce non solo il dramma di una persona che viene condannata ingiustamente, ma anche un altro dramma, più universale, che lei ha citato prima: quello dell’inconoscibilità del reale. Ma c’è qualcosa che possiamo fare?

Anche se il reale è inconoscibile, non possiamo sottrarci al compito di cercare la verità. Cercare la verità è compito di ognuno. Penso che per dare un senso alla vita dobbiamo sforzarci di capire chi siamo. Ma per capire chi siamo, dobbiamo metterci nei panni degli altri, confrontarci con gli altri. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che siamo tutti parte del flusso della Storia. Il mondo non nasce e non muore con la vita di un singolo individuo, nessuno è padrone della propria vita. Abbiamo il compito di restituire quello che ci è stato dato a chi viene dopo. Abbiamo il compito di proseguire nel processo di civilizzazione, affinché ci sia una regressione totale della violenza nella società, nell’individuo. E questo è un processo lunghissimo, che è appena iniziato e richiederà migliaia di anni. Il processo è lento, il passo della Storia è lento, ma non è vero che oggi c’è più violenza che nel passato. Ce n’è di meno. Pensa al concetto di tortura: per migliaia di anni abbiamo pensato che fosse legittimo torturare i nemici, e anche se oggi ancora si continua a usare la tortura, abbiamo preso coscienza che è sbagliato. È un passo avanti. Anche i genocidi continuiamo a farli. E non c’è molta differenza tra le SS che bruciavano i villaggi e le città, e voltarsi dall’altra parte, lasciando la gente morire in mare mentre ci rifugiamo nei social. Credo che solo prendendo coscienza del male possiamo proseguire questo cammino di civilizzazione.

 

 

 

In questa cornice, quale pensa sia il suo compito, come scrittore?

Il mio compito è quello di raccontare storie. Provo a raccontarle in maniera onesta e senza rompere troppo le palle. Ricorrendo all’ironia, e soprattutto all’autoironia, senza prendermi troppo sul serio. E io credo che queste cose siano presenti anche ne Il delitto di Agora.

Antonio Pennacchi 

 

A cura di Chiara Alaia

 

 

Antonio Pennacchi


Operaio in fabbrica a turni di notte fino a cinquant’anni, ha pubblicato tre romanzi con Donzelli: Mammut (1994), Palude (1995) e Una nuvola rossa (1998). Per Mondadori ha pubblicato Il fasciocomunista (2003, premio Napoli) da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico e Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni (2006). È autore anche di Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce (Laterza 2008). Nel 2010 ha vinto il Premio Strega con il romanzo Canale Mussolini edito da Mondadori, che nel 2011 ha ripubblicato anche il suo romanzo d’esordio, Mammut. Sempre per Mondadori esce nel 2015 Canale Mussolini. Parte seconda. Collabora a Limes; suoi scritti sono apparsi su Nuovi Argomenti, Micromega e a Nouvelle Revue.

 

A breve le prossime interviste!