Intervista a Silvia Napolitano




A tu per tu con l’autore


Come è nata l’idea di questo libro? C’è stato un evento o un’immagine che ha dato il via alla storia? 

Per tutta la vita ho scritto per la televisione e per il cinema: e lì capita spesso che un evento o un’immagine diano vita alle storie che volevo scrivere, o che mi venivano commissionate. Nel caso del romanzo, invece, le prime righe sono apparse da sole sul file, non ci sono stati eventi o immagini che me le hanno ispirate, né ho pensato alla storia che volevo raccontare: un giorno, tempo fa, iniziai a scrivere qualcosa (mi capitava spesso, scrivere inizi mi è sempre piaciuto, e mi piaceva anche lasciarli lì). Ma questo inizio era diverso dagli altri, c’era un ragazzino schizofrenico che parlava col suo analista. E mi piaceva. Zac è rimasto lì, qualche anno, come i tanti altri inizi. Poi, un giorno, è tornato. E da quel momento, dopo di lui, sono arrivati gli altri. Ed è arrivata anche la storia.

Ha incontrato difficoltà particolari durante la stesura?

A dir la verità, no. Dopo anni di scrittura su commissione, o comunque finalizzata a un progetto che mi apparteneva solo in parte, mi sono ritrovata completamente libera per la prima volta, come un animale che viene rimesso in natura. Quindi, scrivere è stato un gran piacere. Ho scritto a flusso, quando mi veniva voglia, e senza nessuna difficoltà.

Il romanzo è corale, con tanti personaggi diversi che si intrecciano. Qual è stato il più difficile da scrivere?

Non vorrei sembrare troppo irrazionale (anche se lo sono ☺), ma tutti i personaggi sono arrivati da soli, e si sono raccontati man mano che la scrittura andava avanti. Quando arrivava un personaggio, io non sapevo cosa avrebbe fatto, o dove sarebbe andato. L’unica cosa che conoscevo, quando ho iniziato a scrivere il libro, era il finale. Comunque, credo di essermi potuta permettere questo metodo perché, in tanti anni di lavoro e di costruzione di storie e di personaggi, ho introiettato strutture e percorsi che mi hanno facilitato una sorta di scrittura emotiva, e, sì, appunto: irrazionale.

Il libro è un giallo, ma anche un romanzo psicologico. Quanto è stato importante l’aspetto psicoanalitico nella costruzione della trama?

È stato fondamentale. A me la psicoanalisi interessa molto, io stessa ho fatto diverse analisi, e alla fine penso di avere qualche strumento di interpretazione della vita e delle persone (oltre che di me stessa). Nel libro queste esperienze mi sono servite molto, ma soprattutto mi è servita la convinzione che le nostre storie, quelle di tutti, dei personaggi e delle persone reali, abbiano sempre un’origine oscura e misteriosa, che va cercata e fatta affiorare.

Quanto c’è di autobiografico o di esperienze personali nei personaggi e nelle vicende?

Molto. Io credo che in qualsiasi scrittura, anche in quella per il cinema e la televisione, si debba mettere molto di sé. Questo ‘contributo privato’ può essere travestito, nascosto, ma l’esperienza personale, soprattutto quella emotiva, deve attraversare anche le storie più lontane (apparentemente) da noi. In questo libro, comunque, c’è moltissimo di me. Non avrei potuto scriverlo, altrimenti.

Se potesse scegliere, quale regista vorrebbe che portasse questo romanzo sul grande schermo?

Non lo so, onestamente. In Italia il giallo (o il thriller, o il noir, o il crime) non ha registi di cinema, è considerato adatto solo alle serie televisive: cosa che va benissimo, abbiamo grandi serie, ma è un gran peccato che il cinema abbia dimenticato un genere che negli altri paesi ha sviluppato belle potenzialità narrative. Eppure, abbiamo avuto una grande tradizione di giallo italiano: insieme alla commedia, negli anni Settanta il giallo è stato il pilastro produttivo del cinema, da Dario Argento a decine di altri registi che sono riusciti a formare un immaginario tutto italiano, nonostante molti film non memorabili. Ma, come insegna la Francia e il suo polar, l’importante è seminare e coltivare: la Francia, oggi, raccoglie (in realtà, ha sempre raccolto). Noi, invece, non abbiamo più cinema di genere in sala: e tutte le possibili contaminazioni del giallo con altri generi, ce le siamo perse. Quindi, mi piacerebbe molto che un regista di cinema riscoprisse le infinite potenzialità del giallo per raccontare la complessità della vita, e, magari, si innamorasse di quello che ho raccontato nel libro: ma non so davvero chi potrebbe essere.

Quale vorrebbe fosse la reazione dei lettori dopo aver letto il suo romanzo?

Che dicessero: l’ho letto con grande facilità. E poi: mi è piaciuto. E ancora: ma non parla solo di morti e assassini, parla anche di me.

Silvia Napolitano

A cura di Giusy Ranzini

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