La campana in fondo al lago




Recensione di Velia Speranza


Autore: Lars Mytting

Traduzione: Luca Vaccari

Editore: DeA

Genere: Giallo

Pagine: 480

Anno di pubblicazione: 2020

Sinossi. Norvegia, 1879. Nel piccolo villaggio di Butangen sorge una chiesa dalla bellezza austera e sublime. È un’antica stavkirke, interamente costruita in legno e intrisa di memoria, di leggende e di magia. È qui – tra i banchi spolverati di neve e un freddo capace di gelare il midollo – che un tempo si poteva ammirare l’ultimo arazzo tessuto dalle dita instancabili di Halfrid e Gunhild Hekne, gemelle siamesi unite “per la pelle” dalla vita in giù. Ed è sempre qui che le campane realizzate dal padre in loro onore rintoccano da sé, misteriosamente, ogni volta che una minaccia incombe sulla valle… Fino al giorno in cui il nuovo pastore decide di disfarsene nel nome del progresso e delle proprie ambizioni. Ma il reverendo non ha fatto i conti con Astrid Hekne, indomita discendente di Halfrid e Gunhild, disposta a tutto, anche all’inganno, pur di difendere le “sue” campane e sfuggire a un futuro che sembra già scritto.

Recensione



La campana in fondo al lago è un inno d’amore al proprio paese. È questa la prima cosa che colpisce, prima ancora di conoscere la trama, ed è anche il tratto principale del romanzo. Amore non verso una città nello specifico, ma per un’intera Nazione, per la sua storia, per i suoi abitanti, per il suo folklore.

Ogni singola pagina nasce con lo scopo preciso di raccontare la Norvegia, paese d’origine di Lars Mytting. La si ritrova nelle nevi invernali, così aspre da essere capaci di percepirne il gelo. La si tocca poggiando le mani sui muri delle case e sui tronchi degli alberi. La si sente parlare attraverso i suoi abitanti, resi pratici e duri dal clima in cui vivono.

Ma soprattutto, è il folklore che finisce per rendere reale la Norvegia. Le leggende e le credenze locali si attaccano alla trama fino a divenirne una seconda spina dorsale, facendo si che non si possa dubitare di nulla. Così le visioni diventano squarci sul futuro da interpretare, il miele sulle porte è l’unico rimedio per scacciare le malattie ed ogni evento ha il sapore di un fatalismo da cui non si può sfuggire.

Non è un caso, quindi, che La campana in fondo al lago cominci proprio con una leggenda, ovvero quella della sorelle Hekne. Unite per la pelle dal bacino in giù, le Hekne erano una celebrità a Butangen, abili tessitrici e veggenti. Un’abilità, quest’ultima, che sembra essersi trasferita anche nelle campane che il padre delle gemelle donò alla chiesa e che, da secoli, hanno suonato autonomamente per avvisare i cittadini di una guerra o di un’imminente catastrofe. Credenze popolari, forse, ma le credenze hanno sempre una loro origine.

La narrazione si adatta al tema trattato. Fiabesca, dai toni del mito, tira costantemente verso la descrizione, interiore quanto paesaggistica (e a volte fra le due non c’è davvero molta differenza). Si assiste, parola dopo parola, alla tessitura di un mito a tinte fredde; per questo, molto poco di quello che accade viene spiegato. Sta al lettore, tanto quanto ai personaggi, ritrovare i sottintesi, compiendo un atto di fede che spinga fuori ogni razionalità.

L’intera vicenda si stringe attorno a soli tre personaggi, ognuno dei quali incarna un’anima diversa: Astrid, la discendente delle gemelle Hekne che sembra aver ereditato una parte della loro veggenza; Kai, il nuovo pastore; Gerhald, l’architetto tedesco. Se Astrid è il vertice di un triangolo che ha poca attinenza con l’amore, forte, indipendente e malinconica nel suo fatalismo, più interessanti risultano essere le due figure maschili, chiastiche nei loro atteggiamenti.

Kai preme per la demolizione della vecchia chiesa, gelida e poco funzionale. Lui, emissario della fede, è l’uomo della ragione, che rigetta le credenze di Butangen, ritenendole antiche ed infondate, scandinavo chiuso ai miti ed alle leggende. Gerhald, arrivato a Butangen da Lipsia per organizzare la demolizione della chiesa, rimane affascinato dalla città e dai suoi abitanti, pur non venendone mai pienamente accettato, eterno forestiero. Per contrappasso, è lui, non Kai, che arriva a percepire ed addirittura a comprendere il potere delle sculture del portale, della chiesa e perfino delle campane.

Un potere che non è solo apotropaico, ma reale e tangibile, tale che nemmeno le luci delle lampade delle strade della Germania possono cancellare. Gerhald crede con un atto di fede che non lascia spazio a dubbi o rimpianti, e mescola tale fede con la razionalità delle sua arte, trovando la congiuntura fra due mondi.

Proprio quest’ultima è l’unica soluzione possibile ad un dualismo eterno, razionalismo contro mistero, presente contro passato, Kai contro Gerhald. Trovare un punto d’incontro fra due estremi è a volte non solo necessario, ma vitale. Opporsi a ciò che non si capisce è inutile e dannoso tanto quanto chiudersi ai miglioramenti. L’unica cosa da fare è lasciare che il presente si appoggi su ciò che è venuto prima, lo interiorizzi e poi muova verso un futuro più radioso.

Lars Mytting


Lars Mytting è nato a Favang nel 1968. Giornalista ed editore presso diversi giornali norvegesi e per la rivista di musica Beat, ha conosciuto il successo internazionale nel 2016 con il romanzo Norwegian Wood. Altro grande successo è Sedici alberi, pubblicato dalla DeA.

 

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