Real Stories. Mio figlio Marco




A cura di Kate Ducci


 

Mio figlio Marco

di Marina Conte

(Narrazione di Mauro Valentini)

 

 

Da appassionata di letture che spesso hanno attinenza, vera o immaginaria, con fatti realmente accaduti o che potenzialmente potrebbero esserlo, getto sempre un occhio curioso alle storie di cronaca; la vicenda di Marco, la sua inaccettabile fine, è stata per me una delle più toccanti, una di quelle a cui stenti a credere. Marco… viene istintivo chiamarlo solo per nome, a testimonianza del fatto che la sua storia abbia avuto un impatto emotivo enorme su chiunque la abbia seguita, ma forse è il caso di correggere l’espressione sostituendola con un più adatto ‘su chiunque abbia un cuore’. Perché è proprio questo che è mancato. Dopo averne letto ogni risvolto, sentito ogni testimonianza, di una cosa mi sono convinta: Marco non sarebbe morto se in quella casa, oltre al suo cuore forte, che ha lottato fino all’ultimo istante, ve ne fosse stato un altro, ne sarebbe bastato uno. Marco non è stato ucciso da un colpo di pistola, ma da un misto di egoismo e cattiveria talmente enorme da fare fatica a poterne accettare l’esistenza, da fare fatica a immaginare una pena adeguata per chi lo ha lasciato morire.

 

 

 

 

Sinossi. Chi era Marco? Quali erano i sogni e le speranze infrante in un attimo da quell’assurdo colpo di pistola, sparato dentro la casa di una famiglia che diceva di amarlo? Insieme a Mauro Valentini ripercorreremo, minuto per minuto, atto dopo atto, tutto quello che è accaduto a partire da quella tragica notte, per comprendere cosa è accaduto e per rispondere ai tanti, troppi misteri rimasti insoluti e che hanno causato la tragica fine di Marco. È la notte del 17 maggio del 2015. Marco Vannini, ventenne di Cerveteri, è in casa di Martina Ciontoli, la sua fidanzata. Con loro c’è tutta la famiglia di lei quando Marco viene improvvisamente ferito da un colpo di pistola. Dal momento dello sparo al suo arrivo al posto di primo soccorso, passeranno 110 interminabili minuti, un ritardo che determinerà la morte di Marco. Il “Caso Vannini” irrompe così sui giornali e nelle televisioni di tutta Italia. Troppe del resto sono le cose che da subito non tornano nel racconto e soprattutto nei comportamenti di chi, in quei minuti, era in casa con lui. Un ragazzo straordinario, Marco, che la mamma Marina in queste pagine racconta insieme a suo marito Valerio.

 

 

 

REAL STORIES

Marco Vannini aveva vent’anni. Un ragazzo come tanti verrebbe da dire, ma in un mondo che punta sempre più a sensazionalismo e alla provocazione, era un ragazzo come pochi. Bellissimo, biondo, con un fisico invidiabile e un sorriso radioso, uno di quei ragazzi che non passano inosservati, ma al tempo stesso buono, umile, innamorato della sua famiglia e di quella fidanzata così gelosa e possessiva da controllare ogni suo movimento.

Mamma Marina, per mano a un rispettoso e capace Mauro Valentini, ripercorre gli anni più belli della sua vita, dall’incontro col marito Valerio, fino alla nascita di quel figlio tanto desiderato. E quel figlio sembrava proprio l’incarnazione di un desiderio, non gli avrebbero mai negato qualcosa e mai lo hanno fatto. La casa era sempre invasa dagli amici, l’infanzia e l’adolescenza di quel simpatico bimbo biondo era stata come chiunque desidera possa essere per la persona che più ama: spensierata, divertente, il trampolino di lancio per una vita serena.

 

 

E quella vita serena è arrivata all’improvviso, come accade quando un figlio cresce sotto i tuoi occhi e te lo ritrovi grande senza renderti conto di quando sia avvenuto.

Ma mamma Marina è una mamma speciale (uso il presente perché mamme lo si è per sempre), di quelle che accolgono ogni cambiamento con la gioia che merita, compreso il pomeriggio in cui Marco le ha presentato Martina, bella, bionda e giovane, una fidanzatina perfetta per un ragazzo perfetto in quella semplicità che lo rendeva ancora più speciale.

Era buono Marco, era comprensivo, amava Martina e non voleva ferirla, amava sua madre e non voleva farla preoccupare, non voleva deludere, mettere in allarme, era empatico. Tutte doti invidiabili, che ne facevano il ragazzo speciale che era, e che probabilmente lo hanno condotto alla morte. Perché quando abbiamo la tendenza caratteriale a farci carico degli altrui sentimenti e stati d’animo, difficilmente possiamo immaginare che chi dice di amarci non faccia altrettanto, possa anteporre il bieco egoismo davanti a tutto e tutti, compresa la vita di un ragazzo di appena vent’anni.

 

 

Marco non doveva morire, nessuno dovrebbe morire in quel modo, ma ciò su cui è necessario porre l’accento per ripercorrere la sua tragica fine è che Marco non sarebbe morto. Non è stato ucciso per caso, forse nemmeno gli è stato sparato per errore (come sosterrà, con ampie prove, il perito della parte lesa) ma sicuramente, su questo non ci sono dubbi, non sarebbe morto, se fossero stati allertati i soccorsi.

Era il 17 maggio del 2015 quando Marco si trovava a casa della fidanzata Martina Ciontoli. Alle 23:15, i vicini dichiarano di aver sentito distintamente un colpo di pistola, talmente forte da farli sobbalzare. Subito dopo, nella casa della famiglia Ciontoli è il caos: le richieste di aiuto disperate di Marco sono udibili anche attraverso le pareti, l’agitazione è palese, le urla di Martina all’indirizzo del padre ripetute, al punto che i vicini escono a chiedere cosa stia avvenendo.

La loro prima preoccupazione è sincerarsi che in casa Ciontoli vi siano i genitori, per comprendere se, qualsiasi cosa sia avvenuta, sia gestita da un adulto. Alla risposta affermativa, i vicini si tranquillizzano, rientrano presso la propria abitazione. In seguito, quando la vicenda sarà ben conosciuta in tutti i suoi orribili risvolti, quelle persone cadranno vittime di un senso di colpa che non li abbandonerà. Potevano insistere, potevano chiedere, potevano immaginare… dichiarano tra le lacrime.

Ma no, non potevano. Come avrebbero potuto? Come potrebbe una persona nemmeno dotata di eccezionale bontà, ma di una comune empatia media, immaginare un simile scenario agghiacciante. Eppure si sentono in colpa, loro che non ne hanno, a rimarcare indirettamente il contrasto con chi sembra essere immune al senso di colpa. Perché sussiste un’enorme differenza tra il soffrire per avere ammazzato qualcuno e lo stare male per le conseguenze di averlo fatto.

 

 

 

 

Ma cosa è avvenuto davvero in quella casa, quella notte, in quegli interminabili 110 minuti che hanno condannato Marco a non farcela?

È la domanda che tormenta mamma Marina e papà Valerio, la cui risposta è stata loro negata dagli unici detentori di un così brutto segreto, con una crudeltà seconda solo all’averli privati di un figlio, dell’unico figlio che avevano.

Di certo, sappiamo solo che qualcuno ha sparato a Marco, che il proiettile, pur avendolo colpito senza ledere immediatamente organi vitali, ha avuto tutto il tempo per camminare all’interno del suo corpo fino a fare finalmente quei danni irrimediabili che una pronta chiamata ai soccorsi avrebbero evitato.

Chi ha sparato a Marco?

In casa erano presenti Antonio Ciontoli, capofamiglia, che si è accollato la responsabilità del fatto, la moglie Maria Pezzillo, i figli Martina Ciontoli e Federico Ciontoli e la fidanzata di quest’ultimo, Viola Giorgini.

Dal momento in cui quel colpo è stato sparato, assistiamo tramite ricostruzioni e intercettazioni rubate ai testimoni mentre si trovavano in attesa di venire interrogati, a un circo di follia e crudeltà difficilmente immaginabile. In un romanzo a tema, verrebbe probabilmente ritenuto eccessivo: troppo fantasioso, troppo crudele, troppo folle per comprendere tutta quella gente e renderla complice di un lento omicidio.

Marco viene presumibilmente spostato dentro la vasca da bagno e lavato. I Ciontoli dichiareranno che il ragazzo stesse già facendo il bagno, quando Antonio è entrato nella stanza per mostrargli la pistola e, sa solo lui come, armarla e sparargli accidentalmente. Le perizie diranno altro e altro diranno gli stessi testimoni intercettati a loro insaputa. Martina, ripresa da una telecamera nascosta, mimerà il gesto compiuto dal padre mentre puntava la pistola a Marco, ne descriverà movimenti e reazioni del ragazzo, a innegabile testimonianza che lei fosse presente in quel momento, nonostante questo fatto venga negato fino alla fine del processo. Marco ha chiesto ad Antonio di smetterla, anche questo dirà Martina in quella utilissima intercettazione. Ma Marco non potrà dire la sua sull’accaduto. Quel fidanzato tanto amato, tanto voluto, tanto messo in catene, sarà steso in obitorio, mentre coloro che lo hanno lasciato agonizzare stanno riferendo gli uni con gli altri le parole dette durante le rispettive testimonianze, usando terminologie agghiaccianti come ‘ti ho parato il culo’. Perché l’importante, l’essenziale, è stato questo dal primo all’ultimo istante: uscirne indenni, pensare al dopo.

‘Tanto Marco avrebbe preferito morire’ dice a un certo punto Viola, che trae semplice conforto dall’idea che quella sofferenza avrebbe fruttato menomazioni fisiche tali da fargli preferire la morte”.

 

 

Ma cosa è avvenuto dopo quello sparo, partito per chissà quale assurda ragione?

Nonostante ci fossero ben cinque persone in casa, che avrebbero potuto allertare i soccorsi dopo quel colpo partito, a loro dire, accidentalmente, nessuno mosse un dito. Al contrario, chiamarono il 118 parlando di un malore scaturito da uno scherzo o di una ferita causata da un pettine a punta, salvo poi annullare l’intervento dei soccorsi subito dopo. A mezzanotte, dopo l’ultima chiamata al 118, l’ambulanza intervenne ma nessuno era stato allertato circa il colpo di pistola esploso contro Marco, così il giovane venne trasportato in ospedale in codice verde. Quando i medici scoprirono la verità, era ormai troppo tardi. Marco Vannini è morto alle ore 03:10. I periti diranno: “Poteva essere salvato”.

Se tutto ciò può sembrare sufficientemente folle, alcuni dettagli aggiuntivi meritano di venire riportati. Antonio Ciontoli, mentre Marco lottava tra la vita e la morte, chiese al medico di turno di non riferire del colpo di pistola, come se fosse qualcosa di minimamente plausibile, proponibile, ipotizzabile. Ma d’altronde Antonio rischiava di perdere il lavoro ed esiste priorità più importante? Se esiste, non lo è sicuramente salvare la vita a un ragazzo di vent’anni, cresciuto dentro casa tua, che ti voleva bene e amava tua figlia, che si fidava di te, che implorava tra le lacrime di vedere sua madre, di avere quel telefono che gli avrebbe permesso di parlarle, di farla accorrere.

 

 

 

Marina ha chiesto a tutti i testimoni, più e più volte, se Marco l’avesse cercata nelle ultime ore di vita. No, è stata la crudele risposta alla domanda di una mamma che chiedeva solo le briciole degli ultimi istanti di vita di suo figlio.

In questa vicenda, dai risvolti così orrendi da fare fatica a commentarla, è questo che dobbiamo tenere presente, per comprendere quanto l’assenza di empatia prima e di reale pentimento dopo, abbiano ucciso Marco più e più volte.

Giorni dopo la sua scomparsa, Martina riceve una telefonata. Dall’altra parte c’è un’agenzia di viaggi che chiede spiegazioni: Martina e Marco non si sono presentati nella località in cui avevano prenotato un soggiorno. ‘Abbiamo avuto un lutto’ spiega Martina, per poi sincerarsi immediatamente sulla possibilità di sfruttare successivamente la prenotazione, affinché niente vada perso, i soldi non siano sprecati.

 

 

 

 

Ma perché Marco è morto? È stato un incidente o c’era un movente concreto dietro l’accaduto?

Marco voleva entrare a fare parte dell’esercito. Con l’aiuto di Antonio Ciontoli, aveva più volte compilato i moduli, stranamente errati, per fare una domanda puntualmente respinta. Aveva deciso di rivolgersi in segreto allo zio, probabilmente avendo il sospetto che quegli errori non fossero atto involontario. Martina lo aveva scoperto proprio il giorno della sua morte, a causa di mamma Marina, inconsapevole dell’oppressione a cui era sottoposto il figlio negli ultimi tempi. Martina, cellulare alla mano, dà subito battaglia a Marco, lo incalza scrivendo messaggi, vuole la verità.

È stato questo fatto ad averlo condotto alla morte? Chi ha portato avanti le indagini lo ritiene probabile. Sembra folle, campato in aria, ma esiste qualcosa di normale in tutta questa vicenda? Qualcosa che non faccia gridare allo scandalo, all’orrore, alla cattiveria stupida e immotivata, alla follia, all’egoismo più becero e bugiardo?

 

Le ingiustizie per mamma Marina e papà Valerio non finiscono qui. Il processo, per fortuna riaperto in cassazione, ha portato inizialmente a condanne irrisorie, folli quasi quanto la vicenda a cui hanno fatto da coronamento. Mamma Marina non era in quella casa per poter difendere suo figlio con le unghie e con i denti quella notte, ma era in tribunale a difenderne la memoria. Ha urlato a gran voce contro il giudice, non si è tirata indietro, e in tutta risposta ha ricevuto la minaccia di provvedimenti verso la sua persona.

 

Se esiste una chiave di lettura per tutta questa vicenda, vorrei averla e darla a quella mamma e a quel papà coraggiosi, che hanno tirato su un ragazzo bello e troppo buono per riconoscere la cattiveria, e lasciare almeno che stringano in mano la verità, quella verità che cinque persone hanno loro negato, meritando a mio avviso una seconda condanna per inaccettabile crudeltà perpetrata.

La mia idea è che a volte al male non ci sia una spiegazione che non sia il male stesso, che la cattiveria pura, terra terra, istintiva, egoista e incrollabile esista e che sia impossibile da comprendere per chi non la possegga. E mamma Marina e papà Antonio non sapevano dove stesse di casa, prima di quella notte, così come non lo sapeva il loro ragazzo. Marina, quando intercettazioni e testimonianze glielo confermeranno, avrà il conforto di sapere che suo figlio l’ha cercata con insistenza in quelle ultime ore di vita, ma dirà di averlo comunque sempre saputo. E come sarebbe possibile altrimenti? Intimamente sappiamo sempre chi ci vuole davvero bene ed è da lui che fuggiamo.

A quei genitori meravigliosi, esempio di dignità e coraggio, vanno tutta la comprensione e il rispetto di chiunque abbia sentito parlare della loro storia. La speranza è che abbiano presto almeno tutta la giustizia che un tribunale possa garantire.

 

 

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