Recensione di Cristina Bruno
Autore: Tullio Avoledo
Editore: Marsilio
Genere: noir
Pagine: 528
Anno di pubblicazione: 2020
Sinossi. Sergio Stokar era un buon poliziotto. Forse il migliore a Pista Prima, degradata ma ancora grassa città del Nord-Est. Fino al giorno in cui, senza saperlo, ha pestato i piedi alle persone sbagliate. Così qualcuno l’ha lasciato, mezzo morto, sulla porta dell’ultimo posto in cui avrebbe voluto finire: le Zattere, un complesso di edifici abbandonati dove si è insediata, dandosi proprie leggi, una comunità di immigrati irregolari. Quel rifugio dall’equilibrio fragile e precario – con la sua babele di lingue, razze e odori – normalmente sarebbe un incubo per uno col credo politico di Sergio. Ma è un incubo in cui è costretto a rimanere, adattandosi a nuove regole e a convivere con una realtà che un tempo avrebbe rifiutato. Per poter stare al sicuro, è diventato “lo sceriffo delle Zattere”: mantiene l’ordine, indaga su piccoli reati.Finché un giorno il Consiglio che governa il complesso gli affida un incarico speciale. Alcune ragazze delle Zattere sono state uccise in modo orribile, c’è un assassino in agguato, e solo un poliziotto abile come Sergio può scovarlo, con il suo fiuto e le sue conoscenze, ma soprattutto grazie a un’ostinazione che lo trasforma in un autentico rullo compressore. In un’Italia appena dietro l’angolo – l’Italia di dopodomani, che ci indica con chiarezza dove sta andando il nostro paese – Sergio Stokar deve tornare dal regno dei morti e rimettersi a indagare, frugando nel passato e negli angoli più in ombra della sua città, per scoprire, alla fine, che forse l’indagine è una sola, e che l’orrore si nasconde in luoghi e persone insospettabili. Tutto è legato da un filo. Un filo nero come la notte, rosso come il sangue. Perché in un mondo che ha fatto dell’avidità il suo credo non esistono colpevoli e innocenti, ma solo infinite sfumature di male. Tullio Avoledo esordisce nel noir con un romanzo vorticosamente appassionante e di grande attualità, che non teme di calarsi nei recessi più oscuri di una società rabbiosa e corrotta.
Recensione
Per un ex poliziotto dalle simpatie filo naziste è una sorta di contrappasso dantesco risvegliarsi in una Babele popolata da immigrati clandestini. Le Zattere è una città nella città, edifici abbandonati nella prima periferia di un paese del Nord-Est, dove una comunità eterogenea si è costruita un’identità e una parvenza di vita normale.
In modo semi legale o illegale si sono procurati i pannelli solari che forniscono loro energia, la connessione Internet, l’acqua, il riscaldamento. Hanno una mensa, un mercato interno, una serie di attività artigianali, un ospedale rudimentale e un Consiglio che amministra la giustizia. In questo mondo di confine, che ufficialmente non esiste ma tutti sanno che c’è, si ritrova accolto Sergio Stokar, un personaggio ambiguo, dal passato turbolento nella polizia e nella sicurezza di alte figure istituzionali. Rovinato dalla droga e dai suoi ideali politici di ultra destra finisce, non sa come e perché, in questo centro multietnico. Lo curano nel fisico e nello spirito e lui ricambia lavorando come sceriffo all’interno del piccolo mondo.
Ma la scoperta che alcune giovani ragazze delle Zattere sono state sequestrate e uccise brutalmente, spinge il Consiglio a affidargli le indagini che lo riporteranno all’esterno a cercare l’assassino, rimestando nel fango.
Nero, o meglio grigio con tutte le sfumature del caso, è l’ambiente che circonda Stokar. Grigia la notte, grigi gli animi, grigia la vita fuori e dentro le Zattere. Il tema complesso affrontato dal romanzo è quello della convivenza pacifica tra persone di diverse etnie e abitudini. Il percorso del protagonista è allegoria del percorso che dovrebbe compiere una gran parte della società per accettare il diverso, accorgendosi che poi, in realtà, la diversità non esiste, perché siamo tutti dei naviganti che si trovano sulla stessa imbarcazione e anche se ci esprimiamo in modi differenti, abbiamo le stesse preoccupazioni, gli stessi bisogni, gli stessi sentimenti. Può essere banale osservarlo eppure c’è davvero chi pensa, come Stokar da giovane, che ci siano gradi di umanità superiori e inferiori, uomini di serie A e uomini di serie B.
Le atmosfere del romanzo oscillano tra l’”Arancia meccanica” di Kubrick, effettivamente citata, e “Nirvana” di Salvatores, in una creazione che sconfina nel distopico. La riabilitazione di Sergio è lenta, ma inesorabile, è un accorgersi, giorno dopo giorno, che l’altro non è un nemico.
Albert, Amir, Elena, Krystyna, Lorenzo sono tasselli di umanità che lo accompagnano nel suo viaggio di conversione, nel suo aprire gli occhi sul mondo, finalmente libero da preconcetti. Un po’ alla volta riuscirà a scorgere i mille volti del Male, che si manifestano dove non li aspetteresti e si annidano nell’animo umano, fuori e dentro la grande Babele.
Gli errori del passato si mescolano alle scelte del presente lasciando presagire un futuro che può essere di speranza per il protagonista, ma forse anche per tutta la società.
A cura di Cristina Bruno
Tullio Avoledo
Tullio Avoledo: friulano, è nato a Valvasone nel 1957 e vive e lavora a Pordenone. Oltre a Lo stato dell’unione ha pubblicato: L’elenco telefonico di Atlantide (Sironi 2003, Einaudi 2003), Mare di Bering (Sironi 2003, Einaudi 2004), Tre sono le cose misteriose (Einaudi 2005), Breve storia di lunghi tradimenti (Einaudi 2007), La ragazza di Vajont (Einaudi 2008), L’ultimo giorno felice (Edizioni Ambiente 2008, Einaudi 2011), L’anno dei dodici inverni (Einaudi 2009), Le radici del cielo (Multiplayer.it 2011), La crociata dei bambini (Multiplayer.it 2014) – due romanzi ambientati nel Metro 2033 Universe inventato da Dmitrij Gluchovskij – e Furland® (chiarelettere 2018). Insieme a Davide Boosta Dileo ha scritto Un buon posto per morire (Einaudi 2011). Per Marsilio ha pubblicato anche i romanzi Chiedi alla luce (2016) e Nero come la notte (2020).
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