Risplendo non brucio




Ilaria Tuti


Editore: Longanesi

Collana: La Gaja scienza

Genere: Thriller

Pagine: 320

Anno edizione: 2024

«Solo ora, così vicina a compiere l’atto ultimo di una tragedia che avrebbe richiesto l’estremo sacrificio, Ada finalmente lo comprendeva. Era il testamento di un uomo che sapeva di dover morire e che le chiedeva di vivere pienamente.»

Sinossi. La neve è macchiata di sangue, attorno alla torre del castello di Kransberg. A pochi metri di distanza, il Führer è asserragliato in un bunker, preda di deliri e paure dopo l’attentato del luglio 1944. Ma Johann Maria Adami non ha tempo di pensare al poco spazio che lo separa dal dittatore, ultimo responsabile del suo internamento a Dachau. Il professor Adami ha un incarico: scoprire la verità che si cela dietro la morte sospetta di un soldato nazista. Suicidio? O un complotto alle spalle di Hitler? Veil Seidel, l’ufficiale delle SS che lo ha prelevato d’imperio dal campo di concentramento, è un suo ex allievo e costringe Johann a una sfida contro il tempo: deve ricorrere a tutto il suo acume per sciogliere l’enigma, non solo nella speranza di salvare se stesso, ma per tenere al sicuro chi più ama. La neve è macchiata di sangue, attorno alle mura della Risiera di Trieste. Non è la prima volta che succede, e Ada teme, anzi, sa che non sarà l’ultima. Ma individuare l’assassino è un’impresa impossibile quando la città stessa è invasa di assassini, che hanno riempito l’aria di cenere e di terrore. Nel seguire le tracce del colpevole, Ada è più che mai sola: non ha più suo padre, catturato dai nazisti perché dissidente e portato chissà dove. Non ha più un compagno, scomparso insieme ai partigiani in fuga. Ha soltanto se stessa, il suo cuore, le sue capacità mediche… e un segreto. Da proteggere a tutti i costi. Questa è una storia di resistenza e coraggio, di orrore e saggezza, di fragilità ed eternità. Questa è la storia di un padre e una figlia, divisi dalla Storia e costretti a lottare con tutta l’anima perché la luce possa tornare a splendere.

 Recensione di Sabrina De Bastiani

Se tutto e tutti erano sospetti, allora in chi o cosa poteva risiedere la speranza?

Parto da lei, da Ada. 

Gli uccellini apparivano così fragili, eppure erano capaci di attraversare il più rigido degli inverni.

E, tra i luoghi nei quali ci conducono le pagine di Risplendo non brucio, parto da Trieste,   per provare a restituire, sapendo già che mi sarà impossibile farlo davvero pienamente, quanto il nuovo romanzo di Ilaria Tuti sia potente. Quanto queste pagine più che mai scavino a mani nude nella nostra carne, ci travolgano, ci chiedano di guardare, oltre che di essere lette.

Ada Adami cura le persone, appunto in quel crogiuolo, crocevia, campo minato umano che è la Trieste, segnatamente quella del 1944. 

E’ sola ed è arrabbiata  per essere stata lasciata sola. 

Da un padre integerrimo-  Che cosa era peggio? Fingere di non vedere né sentire che cosa era la guerra e sopravvivere, ogni giorno con una macchia in più sull’anima, o seguire la propria coscienza e opporsi alla barbarie, sapendo di andare a morire? che non si è piegato a logiche e poteri dittatoriali.

Da un marito andato a combattere e che risulta scomparso.

La guerra devastava, spingeva le esistenze di ciascuno al limite e le rivelava per ciò che erano.

Una rabbia sorda, ma non cieca, perché Ada comprende bene la ragione delle scelte fatte, ma è pur sempre una figlia.

Ada sapeva che suo padre aveva ragione. Sapeva che aveva fatto l’unica cosa giusta tra tutte quelle sbagliate che invece potevano salvarlo. Ma una figlia restava una figlia, non importava quanti anni fossero trascorsi da quando, per addormentarla tra le sue braccia, lui la sollevava con una mano contro il cielo e le spiegava i moti dei pianeti e l’ardore delle stelle. Una figlia restava una figlia e tutto ciò che una figlia desiderava era avere una madre e un padre accanto. Lei invece in una notte aveva perso entrambi.

Una rabbia che urla  rivolta  al volto delle persone amate, pur sapendo essere solo schermo verso il vero nemico, che è la guerra.  Che è l’orrore.

Una rabbia che  non può smettere di provare per non lasciare il passo a una paura che la condannerebbe a morte certa.

C’era un unico modo per sopravvivere, ed era diventare più feroci di loro.

E allora Ada  non tace, non si ferma, la guerra era un battesimo che faceva rinascere assassini e lei non poteva più restare a guardare, non si volta dall’altra parte  quando in città vengono trovate assassinate giovani donne –  l’aggressore aveva infierito con una lama su di loro, le aveva morse e abbandonate ai lati della strada, tagliando loro una ciocca di capelli, all’altezza della tempia.

Non sarà lei ad abbandonare quei corpi ai lati della strada perché tre ragazze, tre adolescenti, erano state aggredite brutalmente e due erano morte. 

Due. Non tre.

« È venuta da noi convinta di trovare il male dentro la Risiera. Ha mai considerato che, invece, possa essere qui fuori?»

La Risiera di San Sabba, il fumo, la cenere.

In Risiera ci tengono soprattutto i prigionieri politici.

Gli ebrei sono pochi e ci restano qualche giorno. li portano alla  stazione e li caricano sui carri bestiame in partenza per la Germania. Ma di tutti gli altri che ne fanno? Entrano, ma non escono. Non esce mai nessuno, di loro.  Dei partigiani e degli oppositori che cosa ne fanno?

E fuori, proprio a pochi passi, sangue nella neve. Troppo vicino perché non ci sia un collegamento, troppa l’urgenza per non entrare all’interno, per non varcare la soglia dell’inferno.

Che la proteggessero, quei morti, come i vivi non erano riusciti a fare.

Le simmetrie, in questo romanzo, sono più che mai importanti, più che mai significative, evocative.

Lo si percepisce fin da subito, laddove mentre Ada entra nella Risiera, suo padre, il dottor Johann Adami, o meglio ciò che rimane di  lui,  esce dal campo di concentramento di Dachau – Dachau non si poteva descrivere, doveva essere visto, per essere creduto – prelevato da un ufficiale delle SS, in passato suo allievo, proprio in virtù di quella mente libera e brillante che lo ha condannato.

Chiuso nel recinto di Dachau si era convinto di poter sopravvivere solo diventando bestia. Ora sapeva che l’unica speranza era restare umano.

Una corsa contro il tempo, quella di Ada nel trovare un assassino. Una corsa contro il tempo quella di Johann, chiamato (questione di strategie ponderate, di qualcosa da cedere per arrivare a ottenere quanto desiderato) a scoprire se la morte sospetta di un soldato nazista possa o meno celare un complotto nell’ombra contro Hitler, schiavo della propria immagine, preda di paure inconfessabili, demone in balia dei propri demoni.

A Johann non era mai interessato più di tanto come Caino avesse ucciso Abele, ma perché lo avesse fatto, la spinta all’annientamento, la potenza distruttiva e fratricida, il groviglio nel cuore. La genesi del male, una regione oscura dentro ciascun uomo (…)  rincorreva il male, lo inseguiva per guardarlo in volto e interrogarlo.

Si gioca una duplice partita, incalzante, tesissima, sulla metaforica  scacchiera insanguinata che si dispiega nelle pagine. Una partita che vale vita e vite tra Trieste, Dachau e il castello di Kransberg, lì dove viene portato Adami, lì dove quel soldato è stato trovato morto, lì dove alloggia Hitler. 

«Non è forse quello che Herr Professor raccomanda ai suoi allievi?

Guardare dentro il mostro, sentire ciò che sente… ma con la saldezza di non diventarlo.»

Simmetrie, si diceva prima.

Connessioni, anche. 

Che viaggiano sulle ali di piccioni viaggiatori – Là, dove bruciano i libri, alla fine verranno bruciati anche gli esseri umani. Restò a guardare quelle parole, scritte nero su bianco da due grafie diverse, da due esseri umani che mai si erano incontrati e che nulla sapevano l’uno dell’altro, ma che avevano affidato la propria battaglia alle ali e al vento per attraversare muri di filo spinato e poter sperare di farcela. Era solo uno splendido, straziante contatto umano nel tempo più duro mai attraversato –  e che  in qualche maniera arrivano a una figlia che ritrova il padre, non nella presenza, ma in ciò che ha lasciato dietro di sé.

Tempo prima Ada aveva letto gli scritti di suo padre e li aveva immediatamente allontanati da sé. La visione dell’essere umano che proponevano era troppo spaventosa e insostenibile per molti, perché richiedeva uno sguardo scevro da pregiudizi e il coraggio di calarsi con gli assassini nell’abisso, richiedeva un cuore aperto alla compassione.

Ma compatire significava accettare di soffrire con e per il carnefice, qualcosa che apparteneva unicamente a Dio.

Tornò a sfogliare quelle pagine, a immergersi nel mondo di suo padre, una selva oscura popolata da fiere, dove solo lui riusciva a intravedere la luce lontana della speranza.

Non nella presenza, no.  Ma in quella parte di se stessa dove lo riconosce e  si riconosce.

ll fiuto, l’istinto.  

Quanto avrebbe potuto tirare la corda con la bestia? Almeno fino a quando fosse stata capace di rendere quel rapporto interessante, supponeva. La caccia che stava dando al colpevole, in realtà, non lo spaventava, lo lusingava.

Ora Ada stava pensando come Johann Maria Adami.

 Ma anche e soprattutto la corteccia, il tronco, la radice, la linfa vitale che li accomuna.

Sopravvivere è sempre un atto feroce. Sii feroce.

Non era un monito, era il testamento di un uomo che sapeva di dover morire e che le chiedeva di vivere pienamente, ma di non rinunciare mai alla propria integrità, di attraversare le avversità e i pericoli senza soccombere a compromessi morali.

In quella regola di vita risiedeva il suo amore.

E tutto ciò per dire solo  della trama squisitamente investigativa, magistralmente congegnata, avvincente fino a farsi corsa anche il desiderio di leggere, così come corrono e incalzano gli eventi narrati, forzandosi a tacere dei personaggi comprimari, perché davvero ciascuno di loro meriterebbe e merita  un discorso a parte.

Ma quando si arriva a ciò che ogni singola parola, azione, gesto significano su un piano umano, purtroppo in questo caso reale, e non solo letterario, cosa si può dire?

Qui davvero mancano le parole. Perché se è vero che per ingannare il male, spesso gli devi sorridere,  non possiamo ingannare noi stessi e non sentire addosso e dentro,  tutto il male e tutto il bene che queste pagine benedette contengono, perché volenti o nolenti non possiamo prescindere da questi eventi,  che magari anagraficamente non abbiamo vissuto, ma che comunque fanno parte di noi e in qualche modo ci definiscono.

Mancano dunque le parole per dirlo, per dire quanto. 

Mancano così forti, crude, cristalline, limpide, pure, di un talento vivo e incontenibile. 

Mancano a me. 

Ma non a Ilaria Tuti.

Ada gli scostò i capelli dagli occhi.

«Non dire quella parola, partigiano, e stai alla larga dalla guerra.»

Lui la guardò da adulto.

«Allora voi non fatela, la guerra.»

La sapeva lunga, il piccolo. Più di lei.

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Ilaria Tuti


è nata a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l’inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d’esordio. Tra i suoi libri ricordiamo anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Del 2021 il romanzo La luce della notte, il ritorno dell’amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e speranza. Sempre per Longanesi pubblica nel 2021, Figlia della cenere, nel 2022, Come vento cucito alla terra, nel 2023 Madre d’ossa, nel 2024 Risplendo non brucio.