A tu per tu con l’autore
Ciao Paolo, grazie per aver accettato l’invito della redazione di Thrillernord a rispondere ad alcune domande.
Chiamare un commissario Casablanca vuol dire, poco o tanto, misurarsi anche con Humphrey Bogart. Cosa c’è di lui nel tuo protagonista? Sempre che, naturalmente, ci sia qualcosa…
Giuliano Casablanca è un omaggio a Julian Casablancas, il cantante di una band che ho amato molto, gli Strokes. Di Casablancas mi piaceva sia l’aspetto affascinante e un po’ arruffato, ma anche quel cognome che richiama suggestioni da Milano da bere. Il mio commissario è un poliziotto borghese, un ragazzo un po’ invecchiato -ha poco meno di quarant’anni- che ha un grande fiuto investigativo ma viene spostato ai Passaporti e dribbla la burocrazia andando a fondo di una storia che si poteva archiviare -anche emotivamente- con qualche timbro e una firma. Ha un innato senso di giustizia e un amore per il servizio pubblico cui mi sento vicino. Con Bogart divide un certo gusto per l’eleganza (anche in pieno agosto non rinuncia alla cravatta) e una certa intermittenza amorosa. In fondo è un ottimista: “Domani è un altro giorno” è un motto che saprebbe interpretare con la giusta ironia.
La Milano che racconti nel tuo romanzo è molto diversa dall’immaginario collettivo della Milano da bere degli anni Ottanta: è una metropoli che si muove nei sotterranei, disillusa, corrotta.
Milano è mimetica, è una città matrioska che ne contiene tante in una sola. Un giro in motorino per la città, senza meta, dimostra quanti scenari diversi possano accavallarsi, confondendosi: la città della finanza e dei record ma anche quelle delle code per un pasto caldo e della fatica nelle periferie, i grattacieli sfavillanti vicini ai casermoni popolari, è la città degli eventi e delle grandi feste ma anche la capitale delle solitudini, delle famiglie mononucleari. E’ un luogo di confini invisibili e di mescolanze, di destini diversissimi rinchiusi in poche centinaia di metri, di zone grigie e mondi sotterranei. E’ una metropoli che mantiene questa grande ricchezza nascosta, la contaminazione, che ha aspetti problematici ma che è anche una risorsa: le tante Milano in una sola Milano si parlano, non sempre si comprendono, ma -nonostante l’aumento di affitti e del costo della vita- continuano a coesistere.
Nonostante sia un giallo, tra le pagine del tuo libro si respira anche una bella ironia. A me, in alcuni passaggi, ha richiamato anche gli scritti più scarcastici del grande Beppe Viola: ti ritrovi in questa suggestione?
E’ un paragone lusinghiero ma troppo grande. Beppe Viola è il mio mito, raccontarlo e studiarlo mi ha cambiato la vita consentendomi di conoscere persone che oggi sono parte essenziale del mio quotidiano. Penso spesso a Beppe e alla sua ironia, sono un antidoto eccezionale per attraversare momenti difficili. La più grande lezione che ha lasciato è sul linguaggio e sullo sguardo laterale: lenti un po’ deformanti, forse, che spesso però consentono di catturare l’essenza più profonda delle cose.
Casablanca è un personaggio terribilmente umano, molto terreno e forse è anche per questo che empatizziamo subito con lui. C’è un autore o un personaggio di qualche altro libro che ti ha dato l’ispirazione per caratterizzarlo così bene?
Leggo molto il giallo italiano, quello delle città e dei personaggi che le ruotano intorno. Ho apprezzato tantissimo quelli milanesi, da Scerbanenco e Olivieri a Robecchi, Biondillo, Crovi e Colaprico. Sono tutti fonti di ispirazione. E tra i personaggi insuperati, proprio in questo rapporto con la città, credo ci sia il Fabio Montale nato dalla penna di Jean Claude Izzo. Ogni pagina profuma di Marsiglia e delle sue contraddizioni, è una calamita per un viaggio. Senza dimenticare Sarti Antonio e la Bologna di Loriano Macchiavelli.
Credo che il tuo libro sia l’unico al mondo che citi l’indimenticato golden boy Giuseppe Minaudo: la tua passione per il calcio è evidente.
Il calcio è la mia grande passione. Non è solo il gioco più bello del mondo, ma anche una formidabile chiave di lettura della vita. Di San Siro amo tutto: il rito della partita vista con papà e cari amici, le abitudini, l’osservazione dei tic e delle reazioni degli altri tifosi. Lo stadio è un acquario meraviglioso e la partita è solo un clamoroso, gioiosissimo pretesto. Come ogni tifoso lego stagioni della mia vita -amori, amicizie, snodi professionali- ai giocatori della mia squadra di quel periodo. L’Inter insomma è una specie di asse cartesiano della memoria e dell’umore, oltre che un test costante sulla fatica di un amore complicato E cosi descrivere la classica “botta di culo” che porta l’indagine sulla pista giusta mi sembrava banale: ricordare invece il gol fortunoso di Giuseppe Minaudo in un derby antichissimo mi sembrava più nelle mie corde. Ovviamente alla gioiosa Variante Minaudo si contrappone la Variante Comandini, quella che per un interista identifica un derby tragico, straperso, parimenti indimenticabile.
Rivedremo presto il commissario e la sua squadra alle prese con un nuovo caso?
Certamente. Sono molto felice di questo esordio. E credo che Casablanca e la sua squadra non vedano l’ora di esplorare ancora il lato oscuro di Milano.
Intervista a cura di Christian Floris
Acquista su Amazon.it: