Intervista a Luca D’Andrea




A tu per tu con l’autore


Luca, fresca di lettura del tuo romanzo e seguendoti fin dai tuoi esordi, ho la sensazione palpabile che “Il girotondo delle iene” abbia rappresentato e rappresenti per te, qualcosa di diverso rispetto ai tuoi precedenti. Ho la fortissima, appunto, sensazione che la storia che narri e che muove e si rifa alla vicenda reale del killer di Bolzano, che tra il 1985 e il 1992 uccise cinque donne, ti abbia davvero lavorato dentro e condotto ad un lavoro di scrittura totalizzante e particolare.

Puoi dirci da cosa è scattata la scintilla e cosa ti ha spinto a voler scrivere “Il girotondo delle iene”?

Era una storia che mi portavo dentro da trent’anni. Ero un ragazzino all’epoca, e le foto di quelle ragazze in prima pagina, il modo in cui le persone reagirono a quegli avvenimenti mi colpì profondamente. In qualche modo, senza iperbole, credo che fu lì che la mia bussola di scrittore iniziò a puntare verso determinati lidi. Col passare del tempo ho sempre avuto la tentazione di raccontare quella storia, ma ogni volta mancava qualcosa. Non parlo di fonti o di materiale, mancava qualcosa dentro di me. Non ero pronto. Poi, tre anni fa, l’istinto mi ha detto: oggi. E io mi fido sempre del mio istinto.

E’ tangibile l’accuratezza storica e procedurale che sottende ogni capitolo, così come la verità e la cifra espressiva dei personaggi. Quali sono gli elementi del tutto reali nel tuo romanzo e come li hai raccolti e fatti tuoi?

La maggior parte degli avvenimenti sono reali e verificabili. Ho raccolto quasi quattro Terabyte di materiale, quindi, sì possiamo dire che c’è parecchio di vero. Laddove ho deciso di inserire personaggi inventati o situazioni fittizie, il principio che mi ha mosso è stato quello di scrivere un romanzo che non scaturisse soltanto dagli avvenimenti, ma dagli interrogativi che quegli avvenimenti si portano dentro. 

Quale è stato il passaggio di questa vicenda più difficile da restituire in chiave narrativa?
Non tanto un passaggio, quanto trovare il giusto punto di equilibrio fra le verità di cui quegli avvenimenti sono permeati. Le verità, al plurale. Perché c’è la verità processuale, quella che ci dice chi ha fatto cosa, come e quando la quale è perfetta per un saggio o un articolo di giornale. Però io sono un romanziere e la verità processuale non restituisce ciò che davvero mi interessa, la voce delle vittime. La verità processuale, per sua natura, deve trasformare le persone in “testimoni” o, peggio ancora, in corpi su un tavolo dissettorio. E questa è la prima verità. Poi c’è quella dei “personaggi sullo sfondo”, tutte le persone che ho rintracciato e ascoltato perché scrivere è sinonimo di ascoltare. Ti parlo di ex tossicodipendenti, portieri d’albergo, taxisti, spacciatori, e via così. Persone che mi hanno permesso di ricostruire uno sfondo che, in parte, ricordavo in prima persona (nel romanzo fa capolino anche la via in cui sono nato, quella in cui i tossici andavano mal volentieri e solo quando erano a corto di soldi perché lì veniva spacciata l’eroina tagliata peggio). Tutte queste “figure sullo sfondo”, volenti o nolenti, mi hanno aiutato a trovare la cosiddetta “verosimiglianza”, ma la verosimiglianza è solo la seconda delle tre verità che mi servivano per scrivere il romanzo che volevo. La terza, la più terribile, era quella dei mezzi di informazione. I mezzi di informazione sono stati fondamentali soprattutto per capire come all’epoca quella storia fu raccontata e recepita. Ecco, e mi scuso per essermi troppo dilungato, la vera difficoltà è stata tenere in equilibrio queste tre verità, mescolarle e farle detonare.

Sono rimasta davvero colpita dalla precisione e originalità stilistica della tua scrittura, ti confermi una vera eccellenza nel panorama letterario, ma qui in particolare colpisce come a tale perfezione corrispondano una sensibilità, un coinvolgimento e un’empatia molto forti, pur nella ricerca e nel raggiungimento, dell’oggettività necessaria per narrare questa storia.  Parlo dei corsivi ricorrenti, usati per dare voce alla vittime, così come il ripetere frasi chiave in vari punti del romanzo, parlo delle voci, ciascuna diversa, perfettamente modulate e calzate su personaggi più distanti. In quanti modi e in quante vesti si è calato Luca D’Andrea per interpretarli?  E come si torna ad essere uno, dopo un viaggio così profondo e nel profondo?

Chi inizia un romanzo non è mai chi lo conclude. Almeno, così è per me. E se una storia, a un certo punto, non si impossessa di te, allora non vale la pena raccontarla. È faticoso e, francamente, disturbante. Molte volte, non lo nascondo, sono stato a un passo dal gettare la spugna. Perché mi rendevo conto che lo scrittore di thriller non aveva armi per descrivere quella vicenda. Un conto è la fiction, dove ci possiamo divertire a creare Hannibal Lecter, un conto è trovarsi di fronte a sangue vero e vera sofferenza. Perciò: come costruire un romanzo che sia allo stesso tempo incalzante e rispettoso delle vittime? Come restituire la frenesia di quei giorni? E il cinismo? E la pietà? L’unica risposta è stata quella di lasciare che quel dolore, quell’oscurità mi entrassero sottopelle. Uccidere lo scrittore di thriller, se vogliamo restare nella metafora precedente e, sempre usando una metafora… come si torna da una discesa nell’Ade? Non si torna. Chi entra in certi abissi, non è la stessa persona che ne esce. Sembra un’esagerazione, ma non c’è un altro modo di spiegarlo. 

Il romanzo è strutturato in capitoli secondo una cronologia che ricostruisci e che indichi all’inizio di ciascuno di essi. Ho trovato interessante e realizzata in maniera magistrale l’idea di condensare eventi di mesi, mischiando cronaca e fatti personali, in capitoli che hai titolato, ad esempio, ‘Avanti veloce’. Questo espediente permette di dare il respiro reale degli eventi calati in uno spazio temporale, di non interrompere il ritmo altissimo che tieni in tutto il romanzo e nello stesso tempo fa da ponte ai passaggi salienti della vicenda. Come hai avuto questa intuizione e cosa ha comportato realizzarla?

Il tempo ci definisce. È il tempo a smussare i nostri angoli o a far emergere le nostre debolezze. “Il girotondo delle iene” è un romanzo che doveva confrontarsi con il concetto stesso di tempo, prenderlo di petto. È così che è nata l’idea di quegli “avanti veloce”: mantenere alto il ritmo mentre i personaggi si evolvevano. Quegli scorci, per usare un’immagine, sono un dito premuto sul telecomando mentre la VHS accelera. La vicenda è ambientata negli anni Novanta, dopotutto.

Non mi soffermo, volutamente, su nessuno dei personaggi, perché oltre a essere parte della vicenda, SONO essi stessi la vicenda e vanno scoperti passo a passo. Mi espongo solo nel dirti che Iris mi è rimasta sotto la pelle e lì so già resterà. E vorrei chiedere a te, chi di loro ti ha rapito il cuore.

Quella che nel romanzo chiamo “Marion Haller”, la madre di “Lorena”, la prima vittima del 1992. Non è un personaggio fittizio, è reale. Tutto ciò che hai letto di lei nel libro è vero. Quando ne sono venuto a conoscenza, non volevo crederci. Vedi… a un certo punto, quando sai distinguere a occhi chiusi uno schizzo surale da uno schizzo radiale, quando conosci il prezzo dell’eroina strada per strada, anno per anno, quando conosci le storie di maniaci, guardoni, e personaggi altrettanto repellenti, perché molte delle “figure sullo sfondo” erano e sono persone repellenti, succede che non riesci più a credere nella luce. Inizi a diventare cinico. Ma non alla maniera dei ragazzini che cercano di darsi un tono, è qualcosa di molto più cupo e nichilista. Semplicemente non riesci più a vedere l’umanità delle persone. Poi mi sono imbattuto in lei, in “Marion” il personaggio reale su cui più ho indagato perché non potevo credere che qualcuno potesse sopportare un Golgota del genere per così tanto tempo e in quel modo. Alla fine mi sono dovuto arrendere: lei era così, ha vissuto in quel modo lì. La luce, l’umanità, esiste. Gliene sono profondamente grato.

Quali sono, se ci sono, le penne alle quali ti ispiri e le letture che ti hanno influenzato maggiormente dentro e fuori dal genere?

Questa è sempre una domanda a cui è difficilissimo dare una risposta. Il mio santo protettore è Lovecraft, un uomo che aveva capito la precarietà esistenziale su cui ci muoviamo. E poi Melville. Melville ha scritto una Bibbia destinata a mettere in crisi ogni fede. Di norma mi piacciono gli scrittori che non hanno paura di caricare a testa bassa. Nel genere adoro Grangé, ad esempio. Ma anche Palahniuk, King, DeLillo, Ellroy, Burgess, Manchette, Raymond. Sono davvero troppi per elencarli. Diciamo che non mi piacciono quelli che seguono la corrente, preferisco i battitori liberi. 

Possiamo dire che “Il girotondo delle iene” sia una storia che si puntella sul concetto di ossessione, di verità molteplici, di giustizia e di opportunità? E possiamo altrettanto dire che sia anche una storia salvifica, laddove salvezza sia lasciarsi pungere dalle spine del dolore e non lasciarsi avvolgere dalla nebbia della negazione?

Purtroppo c’è un solo modo per guarire le ferite ed è quello di farle sanguinare. 

Quale è stata la prima cosa che hai fatto una volta terminata la stesura del romanzo?

Ho tenuto fede a una promessa che avevo fatto a me stesso. Ho incontrato la madre di una delle vittime, una donna formidabile, e le ho raccontato il romanzo. Dalla prima all’ultima parola, come si faceva prima dell’invenzione della scrittura. L’ho fatto per prepararla (e proteggerla, sono molto protettivo nei confronti di quelle ragazze, sai?) all’attenzione dei media che, ovviamente, sarebbe arrivata con la pubblicazione del libro, ma soprattutto perché volevo farle sentire, più che capire, che, anche se sono passati trent’anni, c’era ancora chi ricordava quelle ragazze. Con amore e rabbia. Ci sono volute più di due ore. Le ore più tese della mia vita, credimi. Alla fine lei mi ha sorriso, mi ha abbracciato e io ho sentito un po’ di quell’oscurità che mi era entrata nelle ossa, andarsene.

E adesso?

Con questo romanzo ho chiuso un ciclo della mia vita e, allo stesso tempo, ne ho aperto un altro che non è detto sia un proseguimento della storia di “Luca lo scrittore”. Ma, sinceramente, se “Il girotondo delle iene” dovesse essere il mio ultimo romanzo, ne sarei felice. Sarebbe un ottimo commiato.

A cura di Sabrina De Bastiani

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