Intervista a Andrea De Luca




A tu per tu con l’autore


Ciao Andrea, ti ringrazio, anche a nome di ThrillerNord, per aver accettato di rispondere a qualche domanda sul tuo interessantissimo saggio “La scienza, la morte, gli spiriti”.

Oreste del Buono, in una conversazione con Alberto Tedeschi sulla qualità del giallo italiano disse che da noi è mancato “il solido artigianato che contraddistingue anche la letteratura, anche di medio costume anglosassone. (…) Il romanzo giallo deve stabilire comunicazione. Se la comunicazione è stabilita male, non si parla, non si registra nulla.” E’ per questo motivo che la letteratura gialla in Italia è nata in ritardo rispetto agli altri Paesi?

Non mi trovo molto d’accordo con questa affermazione. Rispondo a mia volta con un’altra citazione: “Ho voluto e voglio fare un romanzo poliziesco italiano. Dicono che da noi mancano i detectives, mancano i policeman e mancano i gangsters. Sarà, a ogni modo a me pare che non manchino i delitti. Non si dimentichi che questa è la terra dei Borgia, dei da Romano, dei Papi e della Regina Giovanna… Il romanzo poliziesco è il frutto rosso di sangue della nostra epoca. È il frutto, il fiore, la pianta che il terreno poteva dare. Nulla è più vivo, e aggressivo della morte oggi”. Così scriveva Augusto De Angelis, considerato uno dei tanti padri del giallo italiano. Nel corso degli anni, si è vivamente discusso sull’importanza del giallo in Italia e se questa potesse essere considerata come una letteratura di prima o di seconda fascia. Come spiego nel mio saggio, non credo ci sia un ritardo dell’Italia rispetto alla letteratura gialla di altri Paesi. Credo piuttosto che ci sia un problema di definizioni. Abbiamo esempi di romanzi o racconti con al centro assassini e misteri già a partire dalla metà dell’Ottocento, il vero problema del giallo italiano (ai suoi esordi) rispetto ai suoi simili di oltreconfine è quello di essere stato letteratura di nicchia, di non aver portato la firma di autori conosciuti, di essere stato confuso con il romanzo di denuncia, di aver patito anche una situazione geopolitica di frammentazione. Non a caso, la vera e propria legittimazione avverrà solo nel 1929 grazie a Mondadori e alla sua celebre collana.

In “La scienza, la morte, gli spiriti” si ricorda come Edgar Allan Poe abbia gettato le fondamenta per la narrativa gialla con “I delitti della Rue Morgue” ma la sua letteratura dello “straordinario” aveva i semi che germogliarono ispirando tantissimi altri generi ancora sulla cresta dell’onda. Come mai in Italia la detection story, quella che racconta un’indagine basata sulla deduzione tardò a nascere mentre l’aspetto noir venne recepito molto rapidamente e basta pensare ad un racconto come “Il barile di Amontillado” che ha ispirato tanti autori?

I primi gemiti di romanzo investigativo in Italia si ebbero soprattutto nel meridione. Antonio Ranieri, Francesco Mastriani, Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio per citarne alcuni. All’epoca il sud italiano era teatro di scontri, tumulti e del doloroso passaggio dalla dominazione borbonica all’Unità d’Italia. In questo contesto si verificarono due scenari influenti sulla letteratura. Il primo aveva a che fare con gli autori stessi che sentendosi minacciati dalla censura borbonica, che prevedeva pene severe come il carcere o l’esilio, si vedevano costretti a edulcorare le loro storie per non incorrere nel pericolo di parlare apertamente di morte, criminalità e attacchi al potere. Veniva dunque meno l’elemento allusivo che è tipico del meccanismo deduttivo. Il secondo scenario è più legato al mondo dell’editoria che aveva rallentato parecchio la produttività sotto i colpi delle proteste e degli scioperi, le tirature dei romanzi crollarono e con loro anche la circolazione. Ecco, credo che questi due elementi abbiano causato il ritardo della detection story. La controprova è data dal fatto che “Il cappello del prete” uscito nel 1888 quando l’Unità d’Italia era ormai consolidata e scritto da una penna autorevole quale Emilio De Marchi. L’elemento noir, però, non mancava mai in questi primi romanzi; le città venivano sempre descritte come luoghi pericolosi, bui e nella quale era facile perdersi in vizi e rischi. Non dimentichiamo inoltre che per la prima volta si assisteva all’emigrazione dalle campagne alle città, i conglomerati urbani cominciavano a formarsi grazie al vibrante movimento di lavoratori e tutto questo portava con sé disagi e scontri tipici dei periodi di transizione.

Le deduzioni di monsieur Dupin ne “I delitti di Rue Morgue” hanno uno stretto legame con la disciplina della psicoanalisi codificata per primo da Sigmund Freud, che per sua ammissione, fu colpito dai metodi d’indagine di un critico d’arte italiano di nome Morelli. Nei tuoi studi hai trovato tracce di questa procedura di indagine nei gialli italiani della fine dell’ottocento e della prima metà del Novecento?

Nei gialli italiani, soprattutto quelli dei primi del Novecento, ha ampio risalto il profilo psicologico dei personaggi. Le indagini cominciano a focalizzarsi anche sull’aspetto introspettivo dei protagonisti, soprattutto degli assassini. Si rimane però su un territorio descrittivo piuttosto che investigativo. Ad esempio, Luigi Capuana nel suo “Delitto ideale” traccia dei dettagliati profili sulla psiche dei personaggi tanto che l’azione vera e propria quasi viene a mancare.

Parlando di psicologia però non si possono non citare i legami tra essa e il giallo italiano. Gli ambienti accademici psicologici e antropologici, furono i primi a mettere sotto la lente d’ingrandimento criminali e criminalità. Valido è il loro contributo perché, oltre alle analisi scientifiche, si occuparono della questione anche pubblicando articoli e saggi che entrano di diritto nella critica del romanzo investigativo.

Al centro di questo fenomeno troviamo il Cesare Lombroso, che dopo una lunga attività come medico legale di un carcere, decide di fondare l’antropologia criminale. La nuova disciplina prende spunto dal Positivismo imperante: ciò che può essere provato, è vero. Sigmund Freud prenderà spunto da alcuni elementi di questa disciplina per codificare la psicanalisi.

Sulla base di una classificazione delle caratteristiche psicosomatiche dei delinquenti, egli ipotizza che i delitti siano una malattia, che si manifesta all’esterno attraverso segnali visibili, che vengono detti fisiognomici. Lo scienziato divide i criminali in «tipi», per prevedere i delitti e adottare efficaci strumenti di prevenzione. Enrico Ferri e Alfredo Niceforo, criminologi e allievi di Lombroso, rielaborarono le teorie lombrosiane mantenendone il nucleo e allargando l’indagine anche sul terreno sociologico.

Come mai in Inghilterra ci furono intellettuali come Wystan Hugh Auden, che si definì “un drogato del giallo” e Chesterton difesero a spada tratta il romanzo poliziesco e un poeta laureato come Cecil Day-Lewis scese direttamente in campo scrivendone una decina e in Italia, a parte Antonio Gramsci che, in “Letteratura e vita nazionale” scrisse che “il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura sulle “cause celebri”. A questa d’altronde è collegato anche il romanzo del tipo “Conte di Montecristo”, il genere fu snobbato se non demonizzato?

Anche qui rispondo con una citazione, di Gramsci in questo caso: “Quanto all’Italia credo che ci si potrebbe domandare perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia. (Non è detto con esattezza; non ci sono in Italia scrittori, ma i lettori sono una caterva). Dopo il Mastriani e l’Invernizio mi pare che siano venuti a mancare tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili. Perché questo genere di romanzieri non ha continuato ad allignare tra noi? La nostra letteratura è stata anche nei suoi bassifondi troppo accademica o letterata? I nostri editori non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo spregevole? I nostri scrittori non hanno fantasia capace d’animare le appendici o le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo contentati e contentiamo di importare quanto producono gli altri mercati? Certo non abbondiamo come la Francia di “illustri sconosciuti” e una qualche ragione per questa deficienza ci deve essere e varrebbe forse la pena di ricercarla”. Anche Gramsci nei suoi “Quaderni del carcere” si poneva la stessa domanda che mi ponete voi, in sostanza. Ma lui stesso ci dà anche delle risposte. Il punto, in questo caso, risiede nelle preferenze del pubblico e nelle scelte editoriali. Parliamo di un’epoca in cui i libri uscivano in appendice ai giornali, a puntate, i cosiddetti feuillettons. Il giallo andava forte per questo motivo, la frammentazione delle storie aumentava la suspence, il pubblico gradiva molto. L’altra faccia della medaglia è che il pubblico in questione non era colto o nobile, parliamo del popolino della classe operaia in cui uno leggeva e gli altri ascoltavano per via dell’altissimo analfabetismo. Gli editori e la critica dunque hanno sempre snobbato o demonizzato il genere per questo motivo, solo Gramsci e Benedetto Croce difesero i pregi di questo “nuovo umanesimo” come lo avevano definito. Le conseguenze, purtroppo, sono note e l’Italia si è ritrovata a fare i conti con questo complesso di inferiorità, per me illegittimo.

Nel tuo saggio parli ampiamente di Francesco Mastriani, da molti reputato il padre del giallo italiano. Quale fu, se ci fu, l’eco dei suoi romanzi all’estero?

Come ho appena detto, solo Gramsci apprezzò e promosse l’opera di Mastriani che grazie a lui conobbe anche un piccolo successo all’estero. Il Mastriani è uno scrittore il cui nome può essere accostato a quello di Eugène Sue, di Saverio di Montepin, di Gaborian, di Ponson du Terrail. George Hèrelle che gli dedicò un interessante saggio uscito su «La Revue de Paris» nel 1894 intitolato appunto “Un romancier socialiste en Italie”, nel quale il critico sottolinea il taglio politico ma non rivoluzionario del romanzo intriso di temi religiosi. Nel saggio di Hèrelle, il critico ha anche sottolineato l’indipendenza di Mastriani dai modelli francesi dei Miserabili di Hugo, accostandolo invece a Sue, Montepin, Ponson du Terrail, ma con un’attenzione maggiore al reale da parte di Mastriani, tipico del feuilleton.

Il suo romanzo più famoso “Il mio cadavere” fu tradotto qualche anno dopo la sua uscita in tedesco, inglese e in cecoslovacco, a testimoniare la bontà dell’opera e una certa circolazione internazionale. Da non dimenticare neanche i presunti punti di contatto tra le opere di Mastriani e Arthur Conan Doyle, come spiego nel mio saggio, che potrebbe essere stato influenzato proprio da Mastriani nel tracciare il profilo del suo Sherlock Holmes.

Se dovessi indicare un titolo di un proto-noir italiano emblematico di tutta la produzione ottocentesca, quale consiglieresti?

Evito di ripetere ancora “Il mio cadavere” di Francesco Mastriani che per me, e non solo per me, rimane il primo (proto)giallo italiano, invito però tutti i lettori a reperire il romanzo e a leggerlo perché è una piccola perla nel panorama letterario italiano, un romanzo che è davvero antesignano di tanti generi e portatore di diverse novità stilistiche, peccato solo che non abbia avuto il giusto rilievo negli anni.

Per rispondere alla domanda, cito Il romanzo più rappresentativo dello stile investigativo partenopeo”Il delitto di via Chiatamone” di Matilde Serao, del 1892; a proposito del titolo, è bene ricordare però che il termine delitto all’epoca indicava non solo un’uccisione ma anche un semplice fatto di cronaca dove non doveva per forza esserci un assassinio: anche un tentato omicidio si poteva definire delitto. L’affinità alle atmosfere di Mastriani e Ranieri si evince sin dall’incipit, la descrizione meteorologica fa presagire qualcosa di tetro che sta per accadere. Al solito la narrazione è sospesa tra gotico, horror e giallo.

La vicenda è avvincente. A via Chiatamone, a Napoli, come ogni giorno passa il solito tram, i passeggeri sono una bella fanciulla con l’espressione triste, quasi disperata, un giovane pescatore che si innamora di lei al primo sguardo, una inquietante anziana signora che borbotta tra sé e sé qualcosa di oscuro e poi l’autista e il bigliettaio. La giovane non ha il denaro necessario per il biglietto e il controllore la invita malamente ad andare nella seconda classe, che allora esisteva anche nei tram. Il ragazzo spontaneamente si offre di pagarle il biglietto. La ragazza, un po’ disorientata dal gesto, non sa che fare, si agita vergognosamente in cerca di una soluzione, ma mentre si trova in questo dissidio interiore cade, colpita da qualcosa, all’improvviso è moribonda. L’hanno colpita con un proiettile, la veste comincia a insanguinarsi. A questo punto inizia il mistero. Chi è stato? Perché?

Non svelo altri particolari ma la genialità del romanzo si evince già dalle prime pagine, il lettore viene subito colpito e affondato, non si può fare altro che continuare a leggere. Tra l’altro, l’elemento geniale di questo inizio è quello di proporre, in un mezzo in movimento, il cosiddetto enigma della camera chiusa (un delitto consumatosi una camera chiusa dall’interno) inventato da Poe.

Nel saggio dedichi ampio spazio allo spiritismo che attrasse l’attenzione di tanti scrittori ed intellettuali e nel giallo fornì trame e scenari ad innumerevoli delitti. Oltre a Capuana ci furono altri scrittori particolarmente sensibili al tema, anche all’estero?

Ce ne sono tantissimi e molti di loro hanno poi scritto dei gialli, come spiego largamente nel mio saggio. Luigi Capuana fu uno dei primi e cerco di coinvolgere l’amico Giovanni Verga, a tal proposito ci sono degli interessanti carteggi tra i due. Il vero fulcro dello spiritismo si trovava a Napoli e ruotava intorno alla medium Eusapia Palladino, intorno al suo tavolo si sono ritrovati Franscesco Mastriani, Salvatore di Giacomo, Roberto Bracco e Arthur Conan Doyle le dedica un capitolo nel suo saggio sullo spiritismo. Lo spiritismo è un vero e proprio filo conduttore della storia del giallo in Italia e all’estero. Credo che la fascinazione per la morte abbia portato gli scrittori appassionati di questa disciplina, a raccontare di assassini e misteri dando un taglio più “commerciale” alle loro opere che avevano l’obbligo di incontrare i favori del pubblico. Tra i più famosi appassionati di spiritismo troviamo anche Italo Svevo, Luigi Pirandello e Gabriele d’Annunzio.

Grazie per l’intervista e complimenti per il saggio che non può mancare nelle librerie degli appassionati di gialli.

A cura di Salvatore Argiolas

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