A tu per tu con l’autore
Buongiorno Barbara, sono felicissima, e anche emozionata, al pensiero di poterti intervistare. Amo i tuoi libri e il tuo modo di scrivere, quindi, per me è un bellissimo regalo, ma non mi dilungo troppo… partiamo!
Buongiorno a te e grazie per questo invito a stare un po’ qui con voi.
Vittoria è una donna ferita, una donna che sta affrontando una crisi sentimentale e lavorativa, una protagonista in cui molti lettori si potranno sicuramente ritrovare. Ad un certo punto Vittoria fa un’affermazione piena di consapevolezza e forza: “Usi troppo condizionali, gli ho risposto. I condizionali sono pensieri che non riescono a diventare fatti. Sono verbi falliti. Avresti potuto fare tutto quello, ma non l’hai fatto. Io invece sì. E ho smesso di aspettarlo”. Quel “Io invece sì. E ho smesso di aspettarlo” trasmette un coraggio e una forza dirompenti. Con questo romanzo, hai voluto mandare un messaggio di forza e resilienza a tutti coloro che, come Vittoria, si trovano a combattere, quotidianamente, contro crisi e battaglie personali?
Urca, a me spaventa anche solo l’idea di “mandare messaggi”. Non ho la presunzione di insegnare qualcosa a qualcuno, io racconto storie. E questa è una storia che parla della fatica di ritrovarsi e ricostruirsi, di scoprire le risorse che abbiamo spesso senza esserne consapevoli, di rimettersi in piedi dopo una serie di batoste che la vita può dare a tutti indistintamente. E di amicizia, di sana e profonda leggerezza, della capacità di sorridere anche quando si sta male, del saper ascoltare gli altri. Se poi la storia di Vittoria trasmette forza e fiducia a chi la legge, ne sono felice, davvero molto. Sta succedendo, mi arrivano ogni giorno messaggi di persone che hanno letto il libro e che si sono riconosciuti, qualcuno ha riconosciuto un se stesso al passato, altri al presente, e in effetti mi scrivono di aver tifato per Vittoria e di averne tratto anche speranza. Credo che raccontare qualcosa che davvero tutti, uomini e donne, possono vivere consenta di immedesimarsi e trarre ispirazione, magari faccia anche venire la voglia di provare a rispondere alle domande seminate qua e là, ai dubbi, alle incertezze, alle paure. E poi, per riallacciarmi ai condizionali, credo che ci sia un’enorme differenza tra desiderare qualcosa (dove vedo un condizionale implicito) e il volere qualcosa (dove vedo un presente indicativo, se non addirittura un imperativo). Quando Vittoria si ricompone, rimette a posto i pezzi di se stessa, comincia a dare peso al proprio valore e a volere. Senza condizionali.
In “Vittoria” troviamo smarrimento, dolore e rinascita, raccontati con garbo, sprazzi di ironia e passaggi poetici. Un momento (tra i tanti) che ho trovato estremamente emozionante è racchiuso in questa frase: “ho dato a Valentina i miei occhi per vedersi e per farlo li ho dovuti aprire…”. Ci sono stati dei momenti nella tua vita in cui hai ritrovato la forza e il coraggio di cui necessitavi, grazie all’immagine di te “riflessa” negli “occhi” di chi ti era vicino?
Credo di sì. Ho sempre tratto molto insegnamento anche dalle esperienze altrui, temo di essere un’empatica come Vittoria (temo, perché sarà anche bello per chi ci è vicino ma può essere una gran fregatura esserlo, empatici) e vivere i dolori e i problemi delle persone che amo mi lascia tracce. Poi, come spesso accade, quando si vive qualcosa che ci condiziona, si diventa ricettivi a storie simili e ci si incoccia più del solito, finendo inevitabilmente per confrontarsi. Penso che questo sia un bene, comunque. Sapersi mettere in gioco e in discussione, imparare e confrontarsi sono scalini necessari per crescere.
Nei tuoi romanzi sono spesso protagoniste persone normali, gente buona, capace di piccoli gesti, gente che crea legami, gente che vorresti incontrare spesso nella vita di tutti i giorni. Vi possiamo trovare una sorta di elogio alla bellezza della normalità, quella normalità che tocca corde profonde e affascina. È una scelta precisa o sono le storie e la loro evoluzione che ti portano verso questi personaggi?
Me lo fai notare tu, sai? In fondo è così, nella realtà. Siamo normali, qualunque cosa voglia dire “essere normali”, siamo persone e ci circondiamo di chi, in qualche modo, ci somiglia oppure ci offre qualcosa che ci manca. A me piace pensare a un mondo popolato di persone come i miei personaggi (o i miei amici nella vita reale), di persone che sono come a me piacerebbe essere. Se devo inventare qualcosa, tanto vale creare qualcosa che mi piaccia, che sia un contesto, un protagonista, una situazione. Diciamo che io racconto quella che per me è la realtà o è la realtà come vorrei che fosse. A me piace pensare a un mondo con qualcuno come Margot, Giulia, Leone, Lorenzo, Rebecca, Alice, Giorgio o Vittoria. E di persone così io ne conosco. Forse lo sono anche io, almeno mi piacerebbe che fosse così.
Quando si legge un libro (soprattutto quando il romanzo colpisce profondamente il lettore) ci si chiede sempre se, nei personaggi, c’è un po’ dell’autore. Quanto c’è di te (se c’è) in Vittoria e quanto in Giulia? (protagonista di “Qualcosa di vero”).
Io credo che ci sia un po’ di me in tutte le mie protagoniste e spesso anche in altri miei personaggi, ma poi loro hanno il proprio carattere, la propria personalità, il proprio modo di reagire o di parlare, le proprie storie da vivere. Una cosa, di sicuro, appartiene a me e la consegno sempre a tutte le mie protagoniste, o almeno l’ho fatto finora: l’ironia e l’autoironia. E qualche volta i gatti (solo in “Qualcosa di vero” non ci sono gatti, ma posso dirti che tutti i gatti dei miei romanzi sono stati miei veri gatti. Sugo, di Vittoria, è il mio Brodo).
“Qualcosa di vero”, “Chanel non fa scarpette di cristallo”, “C’era una svolta”, hanno come denominatore comune il mondo delle fiabe (quelle vere!). Quando è nato il tuo amore per questo fantastico mondo? Chi te lo ha trasmesso? (Ma, soprattutto, ci puoi raccontare degli aneddoti sul tuo amore per Zorro?).
Il mio amore per le fiabe è nato insieme al mio amore per la lettura e per la scrittura. Ero piccola, avrò avuto otto o nove anni quando ho capito che ciò che più desideravo al mondo era scrivere, inventare storie. E a quell’età le storie, per me, erano le fiabe. Le ho amate sempre molto, anche da adulta, nonostante crescendo abbia ovviamente cominciato a leggere di tutto. Però lì, nelle fiabe, c’è la genesi della narrazione e la si sente. In fondo, se pensiamo anche ai grandi classici, parlo degli antichi, penso ad Apuleio, a Omero, a Ovidio: non erano forse straordinarie fiabe anche le loro? Con quel senso dell’incanto e del meraviglioso che ancora oggi ci fa correre al cinema a farci raccontare altre storie. Da piccola, di fiabe me ne venivano raccontate molte. Mia nonna e mia zia mi raccontavano le fiabe vere, quelle come le hanno scritte i Grimm, Andersen e Perrault, e mi piacevano da matti. Mia madre e mio padre, invece, se ne inventavano di loro, e io gettonavo i vari personaggi: da Cipollina verde a Pomodoro, per dirne due. Credo sia stato assolutamente naturale, poi, cominciare a inventarne anche io. Quanto a Zorro, vi svelo un segreto: in “Qualcosa di vero” c’è un pezzo autobiografico, totalmente autobiografico. È quando Giulia racconta a Rebecca di Zorro. Ecco l’aneddoto più preciso che posso darvi sul mio amore per quel cavaliere nero.
“Vittoria” e “Qualcosa di vero” sono romanzi profondamente diversi, ma accomunati da un elemento: l’Amicizia. Quanto è importante l’amicizia nella tua vita?
Moltissimo. Ogni volta che finisco di scrivere un romanzo e me lo rileggo scopro di avere, ancora una volta, parlato di amicizia. Fa talmente parte di me e della mia vita, credo talmente tanto nella famiglia allargata, che mi viene naturale immergerci anche i miei personaggi.
Una curiosità a proposito di amicizia: tra te e Alice Basso sembra esserci un legame importante: è bello vedere come vi sostenete e supportate nelle presentazioni e anche sui social network. Il personaggio di Irene, l’amica di Vittoria, di professione scrittrice, è un omaggio alla Basso?
Ahahahahahah no, ma è bello che lo abbiate pensato. Alice è un’amica, ci ha avvicinate la nostra scrittura, ci siamo lette ed entrambe abbiamo pensato che avremmo voluto avere quell’autrice come amica. E così è stato. In modo del tutto spontaneo e naturale. È vero che ci sosteniamo e supportiamo, nelle presentazioni e nella vita. Questo devo dire che succede anche con altri scrittori che considero amici, non ho mai amato né le rivalità né la competizione, io gioisco dei successi degli altri e soffro degli insuccessi, se sono persone che stimo e magari anche a cui voglio bene. Ma io e Alice siamo accomunate anche da un’ironia talmente simile che ci basta poco per capirci al volo. Però no, Irene non è ispirata a lei, anche se credo che qualcosa in comune possano sicuramente averlo.
Da ferma sostenitrice del potere terapeutico dei libri, mi piace definire “Qualcosa di vero” il mio “antidepressivo naturale”, esiste per te un romanzo per i momenti no? Un romanzo in grado di regalarti sorrisi e serenità?
Ne sono onorata. Io sono una lettrice che non rilegge, quindi ho libri che amo moltissimo ma non sono le mie terapie in momenti no. Però ho degli autori che lo sono. Per esempio Terry Pratchett. Quando leggo qualcosa di Pratchett mi trasferisco su un altro mondo dove trovo un autore che, con raffinata intelligenza, è capace di farmi ridere di tutto e persino di farmi amare la MORTE (non l’ho scritto maiuscolo a caso). Perché per me una buona terapia per i momenti no è proprio ridere con intelligenza, e Pratchett non mi ha mai deluso. Ma ci sono molti altri autori che sanno farlo, penso – dico i primi che mi vengono in mente sapendo di far torto a chissà quanti altri – a Christopher Moore, Fredrik Backman e John Niven, per restare sui contemporanei.
Un’ultima domanda da Thrillernord: conosci o segui il genere del thriller nordico?
Mi cospargo il capo di cenere (tanto mi devo ancora lavare i capelli) ma non leggo thriller, non guardo neanche film di quel genere, vivo malissimo la tensione, forse anche per questo amo lo spoiler. Tu dimmi come andrà a finire e io potrò godermi la storia. Lo so, lo so, non dite niente, lo so.
Barbara Fiorio
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