Il collezionista di bambole




Recensione di Sara Zanferrari


Autore: Erika Tamburini

Editore: Triskell

Collana: Redrum

Genere: Thriller

Pagine: 416

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. Febbraio 1929.Dopo la strage di San Valentino, altri avvenimenti sanguinosi continuano ad abbattersi su Chicago. La città del vento è in preda al terrore, tenuta sotto scacco da un serial killer denominato il Collezionista di Bambole, un assassino che da quasi quindici anni terrorizza gli abitanti creando macabre bambole umane con ragazzi di strada, che abbandona poi in luoghi caratteristici come se fossero un tassello a completamento della sua opera. In questo clima di terrore si incrociano le vite di Aidan, il detective messo a indagare sul caso, René, un giovane che vive nella casa di piacere di Mama Blue e che con la donna condivide un terribile segreto e del giovane Hisui, anche lui un ragazzo della casa di piacere. In una metropoli spazzata dal gelido vento del nord che porta con sé le note della musica jazz, il lamento di vittime innocenti e la voce di una bestia bramosa di sangue e vite umane, è in atto una corsa contro il tempo per evitare che il Collezionista di Bambole colpisca ancora. E ancora.

Recensione

Quelle uccisioni portavano il marchio di un unico uomo, non ci voleva un genio per capirlo, quindi doveva solo scoprire cosa legava tra loro le vittime oltre il lavoro che facevano. Come riusciva l’assassino ad avvicinarli? Come li sceglieva? Cosa avevano di particolare affinché fossero scelti per diventare le sue vittime? Oppure li prendeva a caso, i più ingenui, quelli più disperati, pronti a finire nelle sue grinfie? Con la matita in mano, concentrato, iniziò a scrivere tutto quello che era riuscito a carpire da quella montagna di carte accumulate negli anni”.(pag.108)

Dopo un inizio un po’ lento, dove l’autrice si dilunga forse un po’ troppo sul passato drammatico e le sofferenze dei ragazzi prescelti dal collezionista perché diventino le sue bambole, ecco che la storia comincia a decollare.

Probabilmente l’intento è di avvicinare empaticamente il lettore, far capire che nessuno a Chicago sembra interessarsi di quelli che vengono più volte chiamati “marchette” in tono dispregiativo, ed anzi le forze dell’ordine li deridono. Tutti tranne il detective, Aidan Reed, che è l’unico a provare compassione per queste povere anime perse e mette tutto se stesso nella ricerca del loro assassino e torturatore.

Prime 100 pagine quindi difficili da superare, ma poi all’improvviso a pag 112 la svolta: “Appena formulato quel pensiero, la mente di Aidan si risvegliò, come se una lampadina si fosse accesa: un errore avrebbe potuto averlo commesso in passato, ma chi aveva indagato prima di lui non vi aveva fatto caso, bastava non solo cercare sugli incartamenti, ma ripercorrere i passi di quella follia omicida, uno dopo l’altro, e ricreare la mappa…”.

Reed parte e non si ferma più, fino alla risoluzione del puzzle, ricercando indizi sugli incartamenti e le storie di 15 anni di delitti, cominciando a frequentare e conoscere i ragazzi della casa di piacere di Mama Blue. Incontriamo perciò molti giovani, belli e sfortunati, che è impossibile non amare. Così come fa Mama Blue, che di fatto li protegge come dei figli. Anche l’assassino ha la propria storia dolorosa, che si svela un po’ alla volta sia dalle sue parole, sia dagli indizi che il detective mette insieme un passo dopo l’altro. Ed anche il nostro detective ha molte cose da dirci e da scoprire su se stesso, mentre va alla ricerca del pazzo che uccide e trasforma le proprie vittime in bambole umane.

Bello, intenso, coinvolgente, il romanzo prende un’identità tutta sua. Alterna capitoli dove l’assassino parla in prima persona, con quelli dove la storia si dipana in terza persona. C’è in realtà molto amore in queste pagine, pur in una Chicago in cui aleggiano male e dolore.

Direi che forse è proprio questo il punto di forza della storia, che ti prende sempre di più pagina dopo pagina, mentre il lettore un po’ cerca di seguire i meandri contorti della mente e delle azioni dell’assassino, e un po’ non può non restare piacevolmente impigliato nelle storie dolci e amare di tutti gli altri protagonisti.

Una bella opera prima per Erika Tamburini di cui non possiamo che aspettare a questo punto la prossima.

 

 

 Erika Tamburini


Nata a Roma il giorno di San Patrizio di un imprecisato anno, lavora come grafico e restaura vecchie fotografie che in molti casi sono anche la fonte di ispirazione per i suoi lavori. Durante il tempo libero scrive, va alla ricerca d’immagini e di nuovi illustratori. Divoratrice di libri di ogni genere, ama leggere e recensisce per un blog: https://www.piumedicarta.it/

INTERVISTA

Come e perché hai cominciato a scrivere? C’è un momento preciso in cui hai pensato: farò la scrittrice?

Ciao, innanzitutto grazie per questa opportunità e per la recensione che hai scritto, spero vivamente che il libro ti sia piaciuto. Ammetto che la cosa che mi mette più ansia di tutte è sapere cosa ne pensano gli altri dei miei lavori.
Tornando alla domanda, da quel che ricordo ho sempre scritto dal momento in cui sono stata in grado di formulare delle storie e tenere bene la penna in mano; che fossero dei racconti o anche il mio diario scrivevo sempre, fino a quando alle superiori all’improvviso non ho smesso. Ma tra lo studio e gli impegni, man mano ho lasciato andare per diversi anni, fino a quando intorno ai venti una mia amica non mi ha passato alcune sue storie per avere un parere. Perché anche se non scrivevo, non ho mai smesso di leggere e divorare libri. Questa mia amica mi ha fatto precipitare nel mondo delle fanfiction, ne ho lette tantissime e un giorno ho deciso di provare a scriverne una, ma non erano per me. Lavorare su personaggi creati da qualcun altro è sempre difficile, ma in quel momento, anche se non ero pienamente soddisfatta dei risultati, ho avuto l’input per riprendere a scrivere, a provare a creare una storia per intero. Man mano ho ripreso, iniziando a creare ogni tipo di storia, proprio per riprendere la mano e per migliorare, ma anche per rendermi conto quale fosse il genere a me più congeniale. Adoro il fantasy, eppure mi sono resa conto che sarei una pessima scrittrice di fantasy, quindi meglio leggerlo. Sono sincera, anche se come ho detto ho scritto sempre, dal diario alle favole, a storie più o meno lunghe, racconti e anche fanfiction, in tutto questo tempo non ho mai pensato che un giorno uno dei miei lavori sarebbe stato pubblicato, come non ho mai pensato a me come a una scrittrice e soprattutto che sarei voluta diventarlo. La scrittura per me è stata sempre una forma di evasione, un bellissimo passatempo a cui ho sempre dedicato tempo ed energie. Anche se per lungo tempo l’ho considerato un hobby, per tutte le storie ho sempre fatto tantissime ricerche, che poi è anche una delle cose che amo di più. Anche ora, pensando a Il collezionista di bambole, faccio una grande fatica a vederlo come libro, anche se ne ho una copia fisica a casa, in libreria; è tutto ancora molto irreale. Pertanto credo che debba ancora arrivare il momento in cui dirò: farò la scrittrice. Magari con il prossimo libro, chi lo sa.

In che situazione hai scritto questo tuo primo libro? Di notte, di giorno, in una stanza o luogo particolare? Lo avevi dentro da tanto tempo o è stata un’intuizione improvvisa?

Come potete vedere non ho proprio il dono della sintesi. Dunque anni fa, perché sono anni, fu organizzato su una piattaforma online un concorso amatoriale noir, concorso che poi non è stato nemmeno fatto, ma al quale io mi ero iscritta. In quel concorso volevano una storia breve, al massimo una decina di pagine di word, una noir, in cui la città in cui veniva ambientata la storia doveva essere protagonista come i personaggi, ma non a livello di cartolina o descrizioni, ma viva. Pur non essendomi mai cimentata con il genere ho voluto provare e ne uscì, dopo mesi, completamente differente, quello che è il prologo del libro. Dopo quella volta però sentivo che la storia non era affatto completa, che mancava qualcosa, che i personaggi avevano tanto da dire e che ce ne erano altri che volevano venir fuori, peccato che sono rimasta bloccata a lungo, perché in quello stesso anno è venuto a mancare mio papà e io non avevo la forza per scrivere. Almeno fino a quando una sera non mi sono messa al pc. Ogni sera mi sono messa a scrivere, di getto, non importava dove fossi, non ho un posto particolare, e in poche settimane ho buttato già la prima stesura del libro. Ero triste, arrabbiata, vedevo tutto nero, e forse è per questo che ne è uscito un romanzo tanto cupo, tanto doloroso, con personaggi particolari. Ho messo su carta quella storia che avevo in testa da mesi a grandi linee, ma che non sono riuscita a scrivere per molto tempo. Dopo quella prima scrittura di getto, senza controllare nulla, ci sono state tante riletture, tante modifiche e ulteriori ricerche, quasi da farmi impazzire. I personaggi erano tutti nella mia mente e man mano, con tanto lavoro, hanno preso forma.

Cosa ti ha dato l’ispirazione per la scrittura di questo libro? Questo assassino così complicato, questa città in cui aleggia il male ad ogni angolo, le giovani anime usate, torturate e uccise, un detective unico ad avere un cuore…

Con il tempo, scrivendo, mi sono accorta di avere una particolare attitudine nello scrivere di personaggi disturbati, ma anche particolari. Parlo di attitudine, ma lo trovavo molto più semplice io. Anche quelli buoni, non lo sono mai fino in fondo e mi era più facile riuscire a entrare nella loro mente, creare i loro comportamenti. Certo, anche per creare un assassino, un serial killer bisogna fare delle ricerche, non si può scrivere a caso. Eppure il Collezionista inizialmente è nato così: immaginavo questo uomo bramoso di vite umane, che allo stesso tempo era consapevole di quello che faceva. Ama uccidere e giustifica il suo comportamento, la sua sete di sangue incolpando la città e tutto quello che vi avviene, ma lui stesso è consapevole di quello che fa, di quello che desidera. Io amo le immagini, sono un grafico, lavoro con le immagini; anche il mio lavoro è un po’ particolare, perché restauro vecchie foto e per lavoro me ne passano per le mani tante, molte delle quali sono antiche, molti sono ritratti, foto di famiglia, di luoghi qui in Italia e bastano quelle a stimolare la mia fantasia, a crearci sopra delle storie. Ma ho anche la passione di cercarle, vederle, e di tanto in tanto mi capita che anche solo un’immagine mi ispiri un racconto. La foto di una città in bianco e nero, immersa nella nebbia e una figura solitaria in un angolo, basta poco affinché la mia mente attorno a quell’immagine crei molto di più. Così è accaduto con Il Collezionista di bambole: sin da subito, dal momento del sopra citato concorso, avevo deciso sia il periodo storico che l’ambientazione, perché un noir non è un noir se non è ambientato a Chicago nel periodo del proibizionismo, ho le mie fissazioni. Da lì ho iniziato a fare ricerche, ma soprattutto a guardare le foto della città, le foto in bianco e nero e man mano la storia aveva dei luoghi dove muoversi, i personaggi iniziavano ad avere un volto ben preciso, una casa, un luogo di lavoro. Tutto prendeva forma. Per quanto riguarda Chicago, ogni grande città ha la sua storia, le sue leggende. Ogni città, vecchia o nuova che sia, è nata grazie al sacrificio di molte persone, pertanto immaginare che un luogo si nutra della vita e del sangue di chi ci vive per poi bramarne sempre di più era un concetto affascinante, particolare, forse non originale. E in questa città, in un periodo dove era pericoloso uscire, dove le guerre tra gangster erano abituali, che ha una storia, dall’incendio che l’ha completamente rasa al suolo, alla strage di San Valentino, ho pensato che fosse il luogo adatto per ambientare il libro. Poi, come ogni città, questa ha i suoi bassifondi, i luoghi dove le persone considerate dei reietti vengono relegate e dove fanno fatica a vivere e di cui nessuno si cura. Anche in questo caso ho pensato che, qualsiasi sia il periodo storico di un romanzo, non era possibile che tutti fossero indifferenti alle sofferenze altrui, alla morte di giovani ragazzi e così è nato Aidan. Aidan, con il suo carattere un po’ ombroso, ma il più umano di tutto all’interno del romanzo. Come ho scritto sopra non ho proprio il dono della sintesi. Vi ringrazio ancora per la recensione e per aver dedicato del tempo al mio libro.

Erika Tamburini

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