A tu per tu con l’autore
Leggere il tuo libro si è rivelata una bellissima sorpresa, mi piacerebbe sapere se il tuo stile è stato ispirato da qualche altro autore?
Innanzitutto, ti ringrazio per i complimenti e per l’opportunità che mi dai, con la tua intervista, di parlare de “Gli occhi della Basilica”, il mio ultimo lavoro, pubblicato in questi giorni da Bertoni Editore nella Collana Ira, curata da Leonardo Di Lascia. Per rispondere alla tua domanda, se intendi riferirti allo stile di scrittura, trovo che sia veramente difficile dare una risposta. Noi non siamo altro che la sommatoria, con qualche aggiustamento, di ciò che ci gira intorno, sicché direi che sia normale che chi scrive, anche senza volerlo, sia condizionato da quelle che sono state le sue letture. In questo senso, pur non riconoscendomi in alcun autore in particolare, penso che il mio modo di scrivere risenta dello stile di tutti gli scrittori che ho avuto modo di leggere sino ad oggi. Se, invece, intendi riferirti ai contenuti, per cercare di intrigare il lettore ho scelto di puntare più sulle indagini che non sull’efferatezza del delitto, per cui, sotto questo profilo, direi di essermi ispirato più ad Agata Christie e a Simenon che non ad autori, come King, che ti fanno sentire l’odore del sangue. Del resto, non poteva essere diversamente, visto che quando all’università ho studiato criminologia, prima di cominciare a leggere il libro di testo mi sono preoccupato di coprire tutte le immagini.
Hai usato un luogo “sacro” come sfondo di un omicidio, e ho trovato molto interessante l’inserimento della storia della tela; “Apoteosi dell’Ordine dei Benedettini” che è appunto all’interno della Basilica di San Pietro. Sei quindi anche un appassionato di arte?
Sì, sono appassionato d’arte e, oltre a scrivere gialli, mi piace anche molto dipingere. Se, però, ho scelto di ambientare l’omicidio nella Basilica di San Pietro di Perugia è per un’altra ragione. Questa chiesa è di una bellezza sconvolgente e mi ha incuriosito assai il fatto che — per quanto il quadro del Vassilacchi (una delle tele più grandi al mondo, che, per misurare intorno ai 90 mq, è grande grosso modo quanto casa mia) sia stato dipinto nel 1592 — solo nel 2012, a distanza quindi di oltre 400 anni, ci si sia accorti che l’autore si è preso beffa dei committenti e, con la scusa di riprodurre l’albero dell’Ordine benedettino, ha in realtà dipinto lo sguardo del demonio. Questa storia — che ancora oggi non è nota ai più — mi ha intrigato molto e, al di là del contenuto del romanzo (di cui, per ovvie ragioni, non parlerò in questa intervista), mi è piaciuta molto l’idea che l’unico testimone dell’omicidio potesse essere quello sguardo così inquietante.
Nel tuo romanzo ci sono tanti personaggi, quanti sospettati. Credo che gli intrecci tra un personaggio e l’altro siano davvero eccezionali. A tal proposito vorrei sapere se è stato difficile strutturare la storia. Hai riscontrato difficoltà a far combaciare tutti i pezzi?
Ci sono autori che, prima di iniziare a scrivere il loro romanzo hanno già nella testa la scaletta della loro storia. Io ho un altro sistema. Ho solo chiaro l’argomento di cui voglio parlare, che può essere il pregiudizio e l’omertà, come nel caso de “La verità comoda” (il mio precedente romanzo), o il bullismo, la violenza domestica e l’omofobia, per ricordarne alcuni, come ne “Gli occhi della Basilica”. Ogni personaggio, quindi, racconta la sua storia ed è solo alla fine del romanzo che le tessere del mosaico andranno a incastrarsi fra loro, dando coerenza al tutto. In un certo senso, posso dire che, fintanto che non ho scritto la parola fine al romanzo, non so ancora chi sia il colpevole, così che mi ritrovo a indagare accanto all’investigatore, ma non per aiutarlo a scoprire chi è l’assassino, ma per smentire una dopo l’altra le sue intuizioni (che poi dovrebbero essere quelle del lettore). Sono un vero sadico, insomma.
Nella scena dove vede protagonista Giovanni l’autista, impegnato a leggere e ascoltare musica, (e complimenti per la scelta di libro e canzone) mi è sorta una curiosità. Dalla descrizione di Giovanni, che si vuole godere tutta la canzone abbassando finestrino e alzando il volume al massimo, ho l’immagine di uno scrittore appassionato allo stesso modo della musica. Durante la scrittura ti piace accompagnare il lavoro con qualche bel disco, o sei più per una concentrazione al massimo accompagnata da un silenzio tombale?
Dipende dalle situazioni. Quando sono alla ricerca di un’idea preferisco il silenzio, ma, se ho ben chiaro il quadro d’insieme, la musica (la mia musica, ovviamente) mi aiuta a concentrarmi.
Il personaggio che più mi ha colpito è stato il commissario Anselmi, lui e il suo gatto Mollica. Un personaggio che subito si ama, con le sue debolezze e i suoi modi di fare a volte bruschi. Ci sarà una nuova indagine che lo riguarderà? C’è la possibilità di leggere ancora di lui?
Tutti i gialli che ho scritto sino a oggi, compreso quello che è ancora inedito, hanno come protagonista il commissario Anselmi e sono ambientati a Perugia. Mollica, invece, è un’assoluta novità e lo ritroveremo certamente nei prossimi romanzi. Chi conosce me e mia moglie sa che siamo dei gattari convinti, per cui, scrivendo “Gli occhi della Basilica”, ho trovato che fosse il meno che uno dei “personaggi” dovesse essere un micio. All’inizio, per quanto lo descrivessi, caratterialmente, assai somigliante al mio Mollica (al quale avevo già dedicato “La verità comoda”, perché era “l’unico per il quale” — così avevo scritto nella dedica — “non ho difetti”), quel gatto aveva un altro nome. Purtroppo, qualche mese fa, Mollica è venuto a mancare e ho trovato normale dare al micio del commissario Anselmi il suo nome, memore di quello che diceva la vedova Rondine al professor Bollino (sempre ne “La verità comoda”), e cioè che siamo destinati a morire due volte: una prima volta quando moriamo fisicamente e l’altra, quando di noi non si ricorderà più nessuno. Ora, dare al pelosetto del commissario Anselmi il nome di Mollica è stato un modo come un altro per riportarlo in vita e per far sì che non muoia, per lo meno fino a quando ci sarà qualcuno — anche un solo lettore — che leggerà di lui in questo libro.
Domenico Carpagnano
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