L’angolo del traduttore. Intervista a Annamaria Biavasco e Valentina Guani




A tu per tu con il traduttore

 

 

Annamaria, Valentina, è da poco nelle librerie uno dei più eclatanti casi editoriali mondiali: Via col vento di Margaret Mitchell nella nuova veste che gli hanno dato i tipi di Neri Pozza e soprattutto voi con la vostra traduzione. Parliamo del romanzo pietra miliare dell’America intesa in senso moderno, nata dopo la fine della guerra di Secessione. Parliamo di un volume di circa 1200 pagine, un classico acclamato e conclamato che ha venduto e continua a vendere un numero esponenziale di copie. Grazie per la vostra disponibilità a raccontarci questa impresa coraggiosa e affascinante nella quale vi siete cimentate.

 

Innanzitutto volevo chiedervi quale è stata la vostra reazione immediata e quali le vostre emozioni quando vi è stato proposto di ritradurre Via col vento? Quanto tempo vi siete prese prima di dare una risposta?

Ci è sembrata subito una bellissima proposta. Abbiamo provato orgoglio. E un briciolo di soggezione, perché sapevamo di avere a che fare con un “mito” molto conosciuto e molto amato, anche grazie al film. Siccome però il coraggio non ci manca, abbiamo accettato subito la sfida.

 

 

 

Quando ci si assume l’impegno di tradurre un romanzo così corposo, è naturale mettere in preventivo di dover dedicare a ciò parecchio tempo. Quanto avete impiegato a tradurlo e quale è stato il lavoro a monte, quali le vostre letture e riletture prima di approcciare concretamente il testo? La casa editrice vi ha dato input particolari o vi ha lasciato carta bianca?

Fra traduzione, revisione e numerose riletture, abbiamo lavorato a Via col vento dieci mesi. Abbiamo guardato il film (più volte) in lingua originale e in traduzione, abbiamo consultato i vari prequel e sequel del romanzo pubblicati nel frattempo e abbiamo studiato la storia americana del periodo e la guerra di secessione. Abbiamo letto La capanna dello zio Tom, Radici, L’ultima fuggitiva, Il buio oltre la siepe e Il colore viola. Ma abbiamo consultato la traduzione dei colleghi Salvatore e Piceni solo all’ultimo, in fase di revisione, per non lasciarci influenzare. A Neri Pozza abbiamo mandato la Parte prima non appena l’abbiamo completata, spiegando le nostre scelte traduttive, per avere modo eventualmente di correggere il tiro. Hanno approvato, senza chiederci di cambiare nulla. A revisionare la traduzione è stata Giovanna Dossena, che non finiremo mai di ringraziare per l’attenzione, la cura e la professionalità con cui ha migliorato il nostro testo ogni volta che ce n’era bisogno.

 

 

 

 

E’ immediato rendersi conto leggendo questa nuova edizione, della modernità che avete infuso al testo senza snaturarlo, operazione difficilissima che avete condotto magistralmente, moltissimi complimenti! Un elemento che mi ha colpito istantaneamente è il fatto che i personaggi si diano del tu, unitamente alla scelta di mantenere i loro nomi non tradotti, ossia come nella versione originale. Ci raccontate come è maturata questa scelta di approccio al testo e quali difficoltà, se ne avete incontrate, ci siano state nel portarla avanti?

La scelta di non tradurre i nomi propri, di persone, luoghi e istituzioni, è stata immediata perché ormai si fa così. Nessuno ha più in casa le opere di Guglielmo Shakespeare, se non in vecchie edizioni conservate per ricordo di nonni e bisnonni, nessuno dice più Nuova York e, mentre le vecchie generazioni dei reali britannici si chiamavano Elisabetta, Filippo, Carlo, le nuove sono rappresentate da Harry e William. Quanto al tu, lo abbiamo introdotto bilateralmente nei dialoghi fra amici e parenti per sottolineare la parità e confidenzialità dei rapporti e unilateralmente in quelli fra bianchi e neri a ribadire la disparità: i bianchi, anche di estrazione sociale modesta, danno del tu ai neri, che rispondono sempre e solo con il voi. Per i rapporti improntati a maggiore formalità abbiamo scelto il voi anziché il lei perché il lettore non dimentichi che siamo nell’Ottocento.

 

 

 

Via col vento affronta e mette in scena, tra tante tematiche di rilievo, quella della schiavitù delle persone di colore. Più che mai è di preponderante attualità un’attenzione politically correct verso un linguaggio che sia meno che mai offensivo o razzista, come vi siete poste di fronte ad un’opera che ho letto contenere oltre 100 volte il termine nigger oggi considerato altamente denigratorio?

Il termine nigger, che è sempre stato offensivo, soprattutto se usato dai bianchi, oggi negli Stati Uniti è addirittura impronunciabile. (Persino Barack Obama è stato criticato per averlo usato pubblicamente.) Analoga evoluzione ha avuto la parola “negr*”  in italiano: all’epoca della prima pubblicazione di Via col vento era comunemente usata per indicare le persone di colore e nella versione italiana del 1937 spesso traduce anche slaves, darkies, blacks, ecc. Noi abbiamo l’abbiamo usata con maggior parsimonia, per i casi in cui nell’originale c’era un chiaro intento offensivo. Per esempio quando, a guerra finita, le mogli degli yankee rivelano la contraddizione intrinseca del fronte abolizionista: il Nord ha vinto la guerra per la liberazione degli schiavi, ma le signore bianche che si sono trasferite ad Atlanta al seguito dei mariti non affiderebbero mai i propri figli a una bambinaia “negra”. D’altro canto, trattandosi di un romanzo ambientato nel Sud schiavista che descrive la situazione dal punto di vista dei padroni, non sarebbe stato né giusto né possibile alterare i rapporti di forza di quella società con un’operazione di cosmesi linguistica in nome del politically correct. E infatti sia Salvatore e Piceni nel ’37 sia noi oggi abbiamo “fedelmente” tradotto con “scimmia” e “scimmione” la parola “ape” che Margaret Mitchell usa non solo in contesti di dialogo (dove è usata anche dai neri fra loro – interiorizzazione del razzismo dei bianchi?) ma anche in descrizioni (dal punto di vista del narratore onnisciente – razzismo inconsapevole?)

 

 

 

Quale è stato il passaggio più ostico da tradurre e per quali motivi?

Per i motivi di cui sopra, è stato forse il brano che riportiamo qui di seguito, in cui abbiamo dovuto pesare con cura ogni parola per restituire il difficile equilibrio fra il razzismo più o meno inconscio di Margaret Mitchell e le sue considerazioni sociologiche chiaramente benevolenti e affettuose: “Sostenuti dagli avventurieri senza scrupoli del Freedmen’s Bureau e sobillati dall’odio quasi religioso nel suo fanatismo che gli yankee nutrivano per il Sud, gli ex braccianti si erano di colpo ritrovati a occupare le cariche più importanti e avevano reagito com’era logico aspettarsi da creature di intelligenza limitata [as creatures of small intelligence might naturally be expected to do]. Come scimmie o bambini sguinzagliati in mezzo a oggetti preziosi di cui non conoscono il valore, gli ex braccianti impazzavano distruggendo tutto per ignoranza o semplicemente per il perverso gusto di farlo. [Like monkeys or small children turned loose among treasured objects, whose value is beyond their comprehension, they ran wild – either from perverse pleasure in destruction, or simply because of their ignorance] A loro credito andava detto che la stragrande maggioranza dei neri, anche i meno intelligenti, non era cattiva e quei pochi che lo erano veramente erano considerati “turbolenti” già da schiavi. [To the credit of the negroes, including the least intelligent of them, few were actuated by malice and those few had usually been “mean niggers” even in slave days] Il problema era che tutti quanti erano stati educati a non pensare con la loro testa e a ubbidire ciecamente agli ordini e quindi avevano mantenuto una mentalità infantile.”

 

 

 

 

Quale è il vostro pensiero sulla figura di Scarlett? La trovate anche voi fuor di stereotipo e di assoluta modernità?

Scarlett nel romanzo, ancor più di Rossella nel film, è ribelle, autonoma, decisa a ottenere quello che vuole a ogni costo. Capricciosa e viziata nei primi capitoli, ma capace di una determinazione ammirevole quando diventa adulta e affronta le avversità della guerra, della fame, della solitudine, Scarlett ci piace perché è irriducibile, non si arrende di fronte a nulla e, anche se spesso con mezzi discutibili o decisamente riprovevoli, trova sempre una soluzione per sé e per quelli che ha vicino.

 

 

 

Si sta parlando moltissimo di questa nuova edizione e i dati di riscontro sono positivissimi. Più che in altri casi, in questo, per i motivi detti sopra siete centrali e sotto i riflettori voi, in quanto traduttrici. Che feedback avete avuto dal pubblico? Sono state accolte bene e comprese tutte le innovazioni che avete apportato?

Ogni ri-traduzione costringe i lettori a fare i conti con quella figura nell’ombra che è il traduttore. Chi legge un autore straniero nella propria lingua dimentica che, se sta apprezzando la sua prosa (o poesia), è perché qualcuno l’ha studiata, interpretata, decostruita e ricostruita in una lingua diversa. Spesso la traduzione viene considerata un processo di mera trasposizione di parole da una lingua all’altra, che ha poco o nulla di creativo. La nuova edizione di Via col vento, a quasi un secolo di distanza, ha riscosso molto interesse e, naturalmente, sui social sono state espresse diverse opinioni. Se in generale la nostra traduzione è stata apprezzata per la scorrevolezza e la vivacità, specie nei dialoghi, molti fanno fatica a staccarsi da Rossella, Melania e le Dodici Querce, per esempio. C’è chi rimpiange la parlata di Mammy, ormai diventata proverbiale, chi considera meritoria la nostra scelta di far parlare gli schiavi in maniera più comprensibile e chi ci accusa invece di essere state troppo politically correct. Ma il bello è che se ne parli e che finalmente si prenda consapevolezza del fatto che, come dice Daniele Petruccioli, i romanzi sono come brani musicali e gli appassionati ne apprezzano più interpretazioni.

 

 

 

Nella nota alla traduzione del romanzo scrivete: “(…) con buona pace dei tanti affezionati a Rossella, Melania, Susele e Carolene e alla Via dell’Albero di Pesco, noi abbiamo cambiato quasi tutto. A cominciare dal famosissimo incipit.” Ci salutiamo parlando del perché di questa necessità di intervenire sull’incipit e …. se non fosse stato ai limiti dell’ impossibile … Via col vento si intitolerebbe ancora Via col vento?

Il titolo del romanzo di Margaret Mitchell è tratto da un verso della poesia di Ernest Dowson Non Sum Qualis Eram Bonae Sub Regno Cynarae, che parla della fine di un amore e in italiano suona così: “Molto ho dimenticato, Cynara, disperso nel vento”. Sembra che il titolo Via col vento sia stato il frutto di una selezione tra svariate proposte che comprendevano: Vento d’uragano, Bufera nel sud, Il vento che travolge, In preda al turbine, Vento di rapina. A noi sembra un bel titolo e no, non l’avremmo cambiato. Perché abbiamo cambiato l’incipit, allora? Per far capire al lettore – sin dalle primissime righe – che ha per le mani una traduzione diversa:

“Rossella O’Hara non era una bellezza; ma raramente gli uomini se ne accorgevano, quando, come i gemelli Tarleton, subivano il suo fascino” (1937).

Scarlett O’Hara non era particolarmente bella, ma gli uomini irretiti dal suo fascino, “come i gemelli Tarleton, in genere non se ne accorgevano” (2020).

Annamaria Biavasco e Valentina Guani


A cura di Sabrina De Bastiani


 Rassegna stampa: Speciale “Via col vento” di Neri Pozza“

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