Alla luce di quello che sappiamo
Recensione di Velia Speranza
Autore: Zia Haider Rahman
Traduzione: Fabio Zucchella
Editore: La Nave di Teseo
Genere: Narrativa
Pagine: 665
Anno di pubblicazione: 2019
Sinossi. Una mattina di settembre, un consulente finanziario con una carriera in disfacimento e un matrimonio in caduta libera riceve una visita a sorpresa nella sua casa di Londra. Si sforza di mettere a fuoco la figura trasandata con uno zaino sulle spalle che gli sta di fronte, fino a che non riconosce in lui l’amico di gioventù, Zafar, un brillante matematico scomparso anni prima in circostanze misteriose. Ora è tornato con una confessione scomoda che affida al compagno ritrovato. Nella quiete di quella casa londinese, i due amici, ricostruendo il loro passato, iniziano a parlare di qualcosa che riguarda tutti noi: l’amore e la guerra, l’orgoglio e la lotta.
Recensione
Alla luce di quello che sappiamo si classifica come uno dei romanzi d’esordio più ambiziosi e riusciti degli ultimi anni. Già solo cercare di definire il genere o di riassumere la trama rappresenta una difficoltà non da poco. Zia Haider Rahman crea un melange di mille sfumature. Se da un lato è facile riscontrare l’influsso dei grandi autori americani e inglesi (da Roth a Le Carré fino a Conrad), dall’altro l’autore intreccia tra di loro argomenti e culture fino a formare un ricamo intricato. La figura che ne emerge, e che stringe nel pugno l’intera narrazione, è quella di Zafar.
In fuga da se stesso e dal mondo, Zafar si presenta alla porta del suo migliore amico, scarmigliato, in abiti da viaggio, così diverso dall’uomo d’affari che era stato in precedenza che al primo sguardo non viene riconosciuto. Perché questo ritorno improvviso, dopo anni di silenzio?
La domanda perseguita e rimane sospesa, mai pronunciata, in quanto la risposta è lapalissiana. Come il Vecchio Marinaio di Coleridge, Zafar ha semplicente bisogno di raccontare la sua storia, di dar voce a ciò che ha vissuto, lì fuori dal mondo e in sssso. Non cerca assoluzione o comprensione, soltanto un orecchio che gli presti attenzione e che soprattutto gli faccia da cassa di risonanza. È un’anima che si mette a nudo, nei suoi lati migliori e peggiori, senza risparmiarsi.
La narrazione, lunga e tortuosa, conduce a lidi diversi. Geopolitica, economia, fisica, filosofia, matematica, letteratura sono solamente alcuni degli scali compiuti durante un viaggio onirico della durata di oltre vent’anni. Ogni aspetto dello scibile umano ha un proprio posto, non perché il narratore sia onnisciente, ma in quanto si tratta di argomenti che, in misura diversa, ogni essere umano si trova a dover affrontare.
Per questo fra le molle della narrazione, Rahman inserisce la guerra in Afghanistan e la crisi economica del 2008, i due grandi eventi che hanno segnato l’inizio del nuovo millennio. Nessun altro avvenimento ha avuto fino ad ora tante ripercussioni a livello globale come questi ultimi due, catalizzando volente o nolente l’attenzione della popolazione mondiale. Ma se della crisi economica si parla con il linguaggio specialistico ed oggettivo della finanza, privo dell’aspetto umano, lo stesso non si può dire della guerra in Afghanistan.
La ricostruzione dei mesi successivi l’11 settembre avviene attraverso le voci dei militari, della popolazione e attraverso lo sguardo dello stesso Zafar. Egli ne insegna e ricostruisce il panorama politico e culturale, guida in un territorio la cui storia è percepita quale confusa e complicata per gli occidentali. In particolare, il discorso fra i generali alle porte dell’attacco americano è alla base di uno dei capitoli più belli del romanzo. Fra le righe, andando oltre il risentimento della popolazione, emerge lo scacchiere politico mondiale del nuovo millennio e le alleanze che ne sono derivate.
Naturalmente, non si tratta di una ricostruzione storica accurata. Rahman non è uno storico e in fin dei conti non è quello il suo obiettivo. Il grande merito dello scrittore è quello di aver fornito un punto di vista diverso da quello occidentale, un punto di vista basato sulla realtà del Medio Oriente e del sub-continente indiano, ovvero di quella parte di mondo che la guerra e le sue conseguenze le ha toccate con mano.
L’apertura sul mondo orientale collega direttamente Rahman a Mohsin Hamid, con una piccola differenza. Lo scopo di Rahman non è tanto quello di mostrare e di raccontare un popolo, bensì di costruire relazioni fra Occidente ed Oriente, mettendone in luce vizi, virtù, culture e punti di contatto. Lo stesso Zafar finisce per trovare un’equilibrio nella sua esistenza solamente dopo aver passato, poco più che bambino, quattro anni nella sua terra natia. Egli è il luogo dove è nato e quello in cui si è formato, unione di entrambi e piena rappresentanza di nessuno.
La vita di Zafar quasi scompare all’interno di quest’intrico e non è un caso. Egli stesso sorvola su gran parte delle sue esperienze, dando rilevanza solo a quelle che ritiene essenziali: le sue origini, l’istruzione in scuole pubbliche prima di approdare ai migliori college, il rapporto con i genitori, l’amore per Emily, donna senza volto, ricca di soldi e di difetti.
Ma qual è lo scopo di tutto questo raccontare?
Non l’espiazione di un peccato e la messa in guardia, come nella Ballata di Coleridge. Non la risoluzione dei grandi conflitti fra Occidente ed Oriente. Attraverso le sue parole ed i suoi ragionamenti, Zafar prega di ritrovare la verità. Tutto ciò che desidera, che muove le sue riflessioni esistenziali, che crea in lui dubbi e insicurezze, è la ricerca di una ragione dietro gli accadimenti umani. Zafar ne ha bisogno, un bisogno quasi fisico di capire, di trovare una motivazione più profonda. Nell’impossibilità di vederla, racconta e scrive taccuini su taccuini di citazioni, frasi, pensieri.
Tenta di ricostruire tramite la parola scritta, per renderla immortale e definitiva, sacra come i testi religiosi, e quando non ci riesce passa all’oralità, forma primigenia e di comunità. Ma nulla è sufficiente perché nulla può rispondere alle sue domande.
Zafar resta incastrato fra le sue domande, fra i suoi pensieri, dibattendosi inutilmente, consumato fino allo stremo. In tal modo si annalza a Prometeo contemporaneo, ripagando con la sua stessa vita la luce di coscienza esistenziale che porta fra gli uomini.
Da chi ci venga riportata la vicenda non ha importanza.
L’amico che presta un orecchio rimane senza nome perché assurge a metafora dell’uomo qualsiasi. A lui è affidato il compito di riportare la storia, di ritrovare collegamenti che erano andati perduti, per smuovere le coscienza e fornire brandelli di risposte, più semplici, meno complessi, a chi li ricerca.
Zia Haider Rahman
Zia Haider Rahman è nato in Bangladesh. La sua famiglia si trasferisce in Gran Bretagna quando è ancora molto piccolo. Qui, Rahman frequenta istituti importanti, come il Balliol College ad Oxford e le Università di Cambridge e Yale. A New York lavora come consulente finanziario ed avvocato per i diritti umani internazionali. Nel 2014 pubblica il suo romanzo d’esordio, Alla luce di quello che sappiamo, divenuto un vero e proprio caso editoriale internazionale.
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