A cura di Laura Veroni
Autore: Ruta Sepetys
Traduttore: R. Scarabelli
Genere: narrativa
Pagine: 298
Editore: Garzanti
Anno pubblicazione: 2012
Mi hanno tolto tutto. Mi hanno lasciato soltanto il buio e il freddo. Ma io voglio vivere. A ogni costo.
Nel 1940 l’Unione Sovietica occupò gli Stati Baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia. Di lì a breve il Cremlino emanò elenchi di persone considerate antisovietiche che sarebbero state uccise, imprigionate o deportate in schiavitù in Siberia.
Le prime deportazioni ebbero luogo il 14 Giugno 1941.
Coloro che sopravvissero trascorsero da dieci a quindici anni in Siberia. Al ritorno in patria, alla metà degli anni Cinquanta, i lituani scoprirono che i sovietici avevano occupato le loro case, si stavano godendo i loro beni e avevano persino adottato i loro nomi. Avevano perso tutto. I deportati che tornavano venivano trattai come criminali. Parlare della propria esperienza significava incarcerazione immediata o una nuova deportazione in Siberia. Di conseguenza gli orrori che avevano subito rimasero latenti.
Anime coraggiose, temendo che la verità potesse andare persa per sempre, seppellirono diari e disegni in terra baltica.
Si calcola che Stalin abbia fatto uccidere più di venti milioni di persone durante il suo regno del terrore.
Ancora oggi molti russi negano di avere mai deportato qualcuno.
Ma la maggior parte della popolazione baltica non serba rancore, risentimenti o ostilità. Sono grati a quei sovietici che hanno mostrato compassione. Hanno scelto la speranza e non l’odio. Per favore, fate ricerche sull’argomento. Parlatene. Queste tre minuscole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è l’esercito più potente, in ogni caso l’amore ci rivela la natura davvero miracolosa dello spirito umano.
Ruta E. Sepetys
“AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA” è un romanzo molto forte, che rivela verità storiche tenute nascoste per troppi anni.
L’autrice, Ruta Sepetys, figlia di un ufficiale dell’esercito lituano, ha svolto numerose ricerche, compiendo due viaggi in Lituania, incontrando parenti, sopravvissuti alle deportazioni, superstiti dei gulag, psicologi, storici e funzionari governativi, come lei stessa spiega nella nota a conclusione del romanzo.
La storia narrata è la vera storia del dramma vissuto dal popolo lituano in quegli anni, anche se i personaggi sono quasi tutti inventati, eccetto il dottor Samodurov, che salvò molte vite.
Il romanzo narra la storia di Lina, una ragazza di quindici anni, deportata il 14 Giugno del 1941, insieme alla madre e al fratellino di undici anni, mentre il padre era già stato catturato dai sovietici. E’ una storia dolorosa, che ricorda le tante storie già lette e viste sugli ebrei. Quello che i nazisti avevano fatto al popolo ebreo, i sovietici lo hanno fatto anche ai popoli baltici.
Nel libro le due figure di maggiore spicco sono Lina e la madre Elena, donna di grande coraggio, umile, forte e caritatevole.
La storia narra dei dolori, delle sofferenze, dei maltrattamenti subiti, della difficile vita nei campi, al freddo glaciale (Lina dice che a sua madre si erano attaccati i capelli congelati al legno di quello che doveva essere il letto sul quale dormire), della lotta per la sopravvivenza, delle malattie che colpivano i prigionieri per la mancanza di cibo, della disperata voglia di sopravvivere a quell’inferno.
Forte il contrasto tra la vita delle guardie, chiuse al caldo nei loro rifugi, col fuoco scoppiettante, le bottiglie di alcolici, il cibo in abbondanza, i guanti caldi, e quella dei prigionieri, costretti a cibarsi di un pezzo di pane, a rubare qualche patata o pomodoro, col rischio di essere scoperti e fucilati, vestiti in modo inadeguato, insufficiente per resistere al freddo, mentre lavoravano la terra a mani nude, con la pelle che si spaccava per il gelo.
Crude le scene di violenza spietata da parte dei sovietici, come quando durante il viaggio in treno verso i campi, una giovane donna incinta partorisce e non ha latte per nutrire la bambina neonata, che dopo pochi giorni muore e viene gettata dal treno, come fosse un oggetto. La madre verrà uccisa, per non avere saputo far fronte alla disperazione di avere perso la sua creatura.
Cataste di cadaveri ammucchiati sulla neve chiazzata di sangue, con le viscere divorate dalle volpi, senza nessuna considerazione per quelli che i sovietici non ritenevano degni di essere riconosciuti come esseri umani. Li chiamavano bestie, criminali. Nessun rispetto per quelle vite.
E Lina disegnava e raccontava con i suoi disegni l’atroce storia di quella gente. Poi li nascondeva, sperando che un giorno qualcuno potesse ritrovarli e raccontare al mondo quella verità.
Caro amico, gli scritti e i disegni che lei tiene in mano furono sepolti nell’anno 1945 dopo il mio ritorno in Siberia, dove ero stata tenuta prigioniera per dodici anni. Eravamo molte migliaia, quasi tutti sono morti. E i vivi non possono parlare.
Così riponiamo la nostra fiducia in lei, la persona che in un prossimo futuro scoprirà questa capsula di memorie. Le affidiamo la nostra verità.
Questa testimonianza è stata scritta per tramandare una documentazione autentica, per parlare in un mondo in cui le nostre voci sono state soffocate.
Signora Lina Aruydas
9 Luglio 1954, Kaunas
Quanto detto dalla Sepetys sul fatto che la popolazione baltica non serba rancore, si ritrova anche nelle pagine del libro, quando Lina si ritrova davanti a Kretzskij, la guardia sovietica dell’NKVD addetta alla sorveglianza del campo, tanto odiato da lei nel corso di tutta la storia, per le umiliazioni inflitte, per il disprezzo mostrato, per il cinismo.
Alla fine della storia, Lina riesce a provare un moto di compassione per quella guardia, che crolla, piangendo, con la bottiglia in mano, raccontandole di sé, di sua madre morta quando era solo un bambino di cinque anni e le concede di prendere la legna per scaldarsi. “Vattene, Lina. Svelta! Prendi la legna e vattene.”. Lina fa per andarsene, invece le sue gambe la portano verso di lui. Allunga una mano da sotto la legna e gliela pone sulla spalla. “Mi dispiace” dissi alla fine.
Rimanemmo in piedi al buio, senza dire nulla.
Mi voltai per andarmene.
“Vilkas”
Mi girai a guardarlo.
“Mi dispiace per tua madre”, disse.
Annuii. “Anche a me”.
Il romanzo è una forte testimonianza che tutti dovrebbero leggere e meditare, così come Levi, in “Se questo è un uomo”, invitava a fare:
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa.
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
Perché simili orrori non si ripetano più.
Ma forse la storia, nonostante i suoi corsi e ricorsi, come diceva Vico, è comunque destinata a tornare sempre uguale a se stessa, con le sue ingiustizie, con i suoi orrori, con le guerre, con gli odi razziali, con la follia di alcuni, col silenzio di molti, col dolore dell’Umanità, nonostante il grido di chi ha sofferto e che implora che quanto da lui vissuto non venga vissuto più da alcuno.
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