Recensione di Velia Speranza
Autore: Giuseppe Lupo
Editore: Marsilio
Genere: Narrativa
Pagine: 208
Anno di pubblicazione: 2019
Sinossi. Un bimbo che a quattro anni perde l’uso del linguaggio, da un giorno all’altro, alla nascita della sorella. Da quel momento il suo destino cambia, le parole si fanno nemiche, anche se poi, con il passare degli anni, diventeranno i mattoni con cui costruirà la propria identità. Breve storia del mio silenzio è il romanzo di un’infanzia vissuta tra giocattoli e macchine da scrivere, di una giovinezza scandita da fughe e ritorni nel luogo dove si è nati, sempre all’insegna di quel controverso rapporto tra rifiuto e desiderio di dire che accompagna la vita del protagonista.
Recensione
“Breve storia del mio silenzio” non può considerarsi un romanzo di formazione, ma è senz’altro un romanzo di crescita ed evoluzione, di una scoperta di sé mediata dal mondo esterno.
Giuseppe Lupo si racconta senza filtri, collegando l’infanzia con l’inizio dell’età adulta, la Basilicata intera con la sola Milano. Ed il filo che tiene unita l’intera narrazione è intessuto di parole, inanellate in una catena che diviene mano mano sempre più stretta, sempre più salda.
Sono proprio le parole, infatti, ad aver segnato l’intera esistenza dell’autore. Anche quando non c’erano altro che silenzi, anche quando venivano sostituite da colpi e rumori che sintetizzavano intere conversazioni, erano presenti. Anzi, proprio nel silenzio che colpisce Lupo dopo la nascita della sorella (una privazione senza spiegazione, un improvviso prosciugamento) si avverte tutto il loro peso. In quei mesi di mutismo, le parole si trasformano in fantasmi che danzano sulla lingua e che cercano disperatamente di tornare in vita.
Quella che viene ad instaurarsi è una convivenza difficile lunga, fatta di arresti e ripartenze, di sguardi diffidenti e bruschi ritorni, perché nonostante tutto, nonostante la reverenza, la magia e l’ostilità, c’è attrazione e il desiderio di donare loro una forma che spieghi le trame del reale.
Nel racconto che Lupo fa della sua storia personale si avverte un senso di predestinazione, di profezia.
Ogni evento finisce per giocare un ruolo fondativo nella sua definizione attuale, agendo da segno premonitore o da molla scattata in ritardo. Si tratta, ovviamente, dello sguardo di chi getta una luce sul proprio passato e cerca di comprenderlo, di dare un senso a tutto ciò che ha vissuto, di trovare ragioni, motivi e strade che l’hanno condotto fino a quel punto. Ed è, soprattutto, il tentativo di svelare la propria infanzia, quella terra nebbiosa dell’esistenza universale.
Ma l’infanzia è ben raramente il luogo delle parole (ancora così estranee, ancora così astratte). Essa, al contrario, è il luogo degli oggetti, del tatto e dell’olfatto, di sensazioni che fanno prudere i sensi con un misto di nebbia. E allora ecco accavallarsi l’uno sull’altro la boccetta del dopobarba, le confezioni dei medicinali, il lampadario, le bambole, il gesso.
A questi si vanno poi aggiungendo la macchina da scrivere, la stilografia, le riviste ed i libri che piano piano assumono un significato diverso dal mero oggetto fisico. Questi ultimi diventano mezzi per evolversi, per crescere, per scoprire ed imparare, ricchi di fascino e di mistero, promesse di un futuro che è sempre vago. Proprio gli oggetti segnano la crescita di un’altra entità presente nel romanzo.
La Basilicata, terra mistica e regione di un Meridione che ancora fatica a entrare a far parte del proprio secolo, soffre gli stessi mutamenti di Lupo attraverso le innovazioni che pian piano si installano (le mensole di produzione industriale, la stufa, la macchina). Esse non indicano solamente un passaggio di era (dalla ruralità alla borghesia), ma sono anche il segno di un’avvicinamento con Milano, quello stesso che Lupo vive trasferendosi proprio nella capitale lombarda per studi. La Lucania si pone, quindi, come un doppio dell’autore e il terremoto dell’ ’80 è un riflesso delle crepe apertesi nell’animo di Lupo alla fine della sua adolescenza.
Ma dall’infanzia, dalla propria terra natale, dai timori oscuri di bambino non si può scappare. È questo, alla fine, che mostra l’autore, ciò che vuole comunicare. Per quanto ci si provi, per quanto ci si impegni, è lì che si torna sempre, nella testa e nel cuore se non fisicamente, perché sono in questi luoghi (reali, temporali e metafisici) che si annidano tutte le domande irrisposte dell’esistenza. Quella che Lupo racconta in “Breve storia del mio silenzio” è, però, la storia di tre vite diverse: quella dell’autore stesso, quella della Lucania e quella della letteratura.
Quest’ultima si stende sopra le altre due, affiorando al di sotto della trama quasi in punta di piedi, visibile ma sempre un pò in secondo piano. Dalle pagine, infatti, saltano fuori nomi autorevoli di personaggi ormai cristallizzatisi nel tempo, di dibattiti che hanno animato la vita letteraria nel corso dell’intero Novecento. Pagine di storia si dipanano senza che il lettore ne sia consapevole, intrappolato nell’atmosfera di sogno e di ricordo che permanea tutto il romanzo.
Lupo, alla fine, regala un’opera che non ha alcuna pretesa se non quella di raccontare. E lo fa con i suoi tempi, accelerando e rallentando sull’onda dei ricordi, delle impressioni, dell’onda emotiva che mescola, dilata e confonde. Semplicemente, decide di seguire il tempo della vita, mai lineare, mai razionale, e soprattutto, senza fine apparente.
Giuseppe Lupo
Giuseppe Lupo è nato ad Atella (Lucania) nel 1963. Traferitosi in Lombardia per studi, ora insegna letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia. Scrittore e saggista, collabora con numerosi quotidiani e riviste, fra le quali “Sole 24 ore” e “Avvenire”. Per Marsilio ha pubblicato numerosi romanzi, fra cui “L’americano di Celenne”, “Gli anni del nostro incanto” e “L’albero di stanze”.
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