COME VENTO
CUCITO ALLA TERRA
Autore: Ilaria Tuti
Editore: Longanesi
Collana: La Gaja scienza
Anno edizione: 2022
Pagine: 384 p., Brossura
Sinossi. Dopo il grande successo di Fiore di roccia, una nuova, potente storia di riscatto e di speranza.
«Una narratrice che fa sculture e pitture dalle vene intense dell’animo umano» – Corriere della Sera
Londra, settembre 1914
«Le mie mani non tremano mai. Sono una chirurga, ma alle donne non è consentito operare. Men che meno a me: madre ma non moglie, sono di origine italiana e pago anche il prezzo dell’indecisione della mia terra natia in questa guerra che già miete vite su vite. Quando una notte ricevo una visita inattesa, comprendo di non rispondere soltanto a me stessa. Il destino di mia figlia, e forse delle ambizioni di tante altre donne, dipende anche da me. Flora e Louisa sono medici, e più di chiunque altro hanno il coraggio e l’immaginazione necessari per spingere il sogno di emancipazione e uguaglianza oltre ogni confine. L’invito che mi rivolgono è un sortilegio, e come tutti i sortilegi è fatto anche d’ombra. Partire con loro per aprire a Parigi il primo ospedale di guerra interamente gestito da donne è un’impresa folle e necessaria. È per me un’autentica trasformazione, ma ogni trasformazione porta con sé almeno un tradimento. Di noi stessi, di chi ci ama, di cosa siamo chiamati a essere. A Parigi, lontana dalla mia bambina, osteggiata dal senso comune, spesso respinta con diffidenza dagli stessi soldati che mi impegno a curare, guardo di nuovo le mie mani. Non tremano, ma io, dentro di me, sono vento.»
Questa è la storia dimenticata delle prime donne chirurgo, una manciata di pioniere a cui era preclusa la pratica in sala operatoria, che decisero di aprire in Francia un ospedale di guerra completamente gestito da loro. Ma è anche la storia dei soldati feriti e rimasti invalidi, che varcarono la soglia di quel mondo femminile convinti di non avere speranza e invece vi trovarono un’occasione di riabilitazione e riscatto. Ci sono vicende incredibili, rimaste nascoste nelle pieghe del tempo. Sono soprattutto storie di donne. Ilaria Tuti riporta alla luce la straordinaria ed epica impresa di due di loro.
COME COMINCIA
La vampata sulfurea del fiammifero sembrò presagire l’apparizione del demonio. Se fosse comparso, non sarebbe stato la prima creatura degli inferi a passare di lì, quella notte. Nella mansarda l’aria era ferma e puzzava della violenza consumata, di un’umanità bestiale. Dalla finestra spalancata non entrava un alito di vento a spazzarne le tracce. Sembrava che i passi del male avessero lasciato altre impronte, là fuori. Un pianto sommesso, giù in strada, una nenia funebre, poco lontano.
Cate accese il fornelletto ad alcol, attese che l’acqua bollisse nel contenitore e sterilizzò l’ago.
Di diavoli ne aveva incontrati diversi, fino a comprendere che alcuni esseri erano tormentati da una fame che non aveva nulla a che vedere con il nutrimento. Li osservava esercitarsi con più determinazione di altri nell’arte di sopravvivere, apprendere l’imponderabile, mandare a memoria ogni errore. Con i frammenti d’ossa dei propri simili costruivano corazze, e con la potenza delle mandibole risalivano la china.
La vedova Harris apparteneva a quel tipo di esseri.
Recensione di Sabrina De Bastiani
“Accontentarmi? Potrei, certo, ma per chi? Per me, o per mia figlia? Con che diritto devo dirle che il suo sarà un futuro di limitazioni perché sua madre non ha avuto il coraggio di lottare?”
Come si possa definire rivoluzionario un romanzo che fa di pace, integrazione, rispetto, le palafitte su cui si erge, ce lo mostra, e solo lei avrebbe potuto farlo in questo modo, Ilaria Tuti.
La rivoluzione che anima, e ne è anima, “Come vento cucito alla terra”, parte dal titolo.
Cosa abbiamo di più indomito, inafferrabile, intangibile del vento? Eppure lo sentiamo, è capace di schiaffeggiarci, di spostare gli oggetti, lo vediamo nelle onde del mare che si increspano, in una tenda alla finestra, nei fili d’erba, nei petali dei papaveri e nei rami degli alberi che si muovono.
E non è nemmeno un caso che si parli, in comune accezione, di venti di guerra.
Perché il vento sibila, soffia, ma sa anche urlare.
Per contro, cosa abbiamo di più concreto, materico, fisico , della terra? Sorregge il nostro peso e quello di palazzi e costruzioni e auto e fabbriche.
Come possano incontrarsi questi due elementi, vento e terra, ce lo insegna la fisica.
Come possono essere però indissolubilmente legati uno all’altro?
Come possono essere cuciti assieme?
Ci vuole un filo particolare, potrei dire magico, anche se quello con cui tesse Tuti è costituito di realtà.
L’Autrice ci racconta, di più, anzi, ci conduce in una storia che è vera, nel suo nucleo più profondo e nella sua ossatura così come in alcuni dei suoi personaggi. E su questo innesta la narrazione pura, accogliendoci, invitandoci letteralmente a guardare.
Si guarda, infatti, a occhi aperti, così come a occhi aperti si legge. E qui le due azioni si confondono fino a farsi una.
Totale, totalizzante.
Impossibile staccarsi mentalmente durante la lettura, impossibile fino a che l’ultimo punto di sutura sia stato dato alle membra offese dei soldati feriti, reduci dalle sanguinose battaglie della prima Guerra Mondiale, sulle quali Tuti non fa sconti né edulcora, confermandosi dopo il sublime “Fiore di roccia”, come una delle migliori penne contemporanee in grado di affrontare tematiche belliche.
Impossibile, fino alla fine. Laddove ci si rende conto che quanto è stato salvato, poco o tanto che sia, e parliamo di arti, di bulbi oculari, ma anche di cuore in senso metaforico, ha un nome solo e unico: vita.
Vita. Quattro lettere che sono il senso e la misura di grandezza.
“Non sempre possiamo proteggerci dalla vita.”
Vita, quella che Cate, la protagonista, aiuta, dapprima a venire alla luce
“Ma tu fai nascere i bambini. Curi le donne.”
Lo disse come si argina il corso di un fiume: piantando parole per contenere, per strizzare ciò che potrebbe esondare e riempire spazi che non gli sono propri. Cate sentì gonfiarsi la corrente, i flutti sbattere e salire fino in gola, fino a straripare.
“Io sono un medico chirurgo.”
e poi a resistere, in una sorta di rinascita
Sei la forza e la caparbietà avevano una consistenza e un sapore, allora dovevano essere quelli dell’acqua e del sale, e se c’era una parola a cui si erano accompagnate, lungo tutta la sua vita , era ‘speranza’.
Vita, quella che Alexander, il protagonista, avrà la forza di affrontare, di ricucire, proprio nel momento della sua più estrema debolezza, tra gesti di rabbia smorzati dai sorrisi, ricamati in una tenerezza nuova, schiusa come un fiore, quel fiore.
La vita giocava con le coincidenze, ed era ironica, feroce, e dolcissima.
Vita nuova, diversa che aspetta tutti loro, soldati, dottoresse. Di quanto sia sacra nella piena, intera consapevolezza di se stessi.
Si poteva andare avanti, ricostruire dal poco rimasto. Si poteva scegliere chi si voleva essere, al di là di un cognome che forse avrebbe potuto riparare dai colpi della vita, non da tutti, e di certo mai avrebbe potuto dare quel calore del quale un’indole come la loro provava bisogno.
Costava dolore, costava lacrime.
Costa il prezzo di un libro, questo romanzo.
Vale molto molto molto di più.
Perché le cicatrici che tutti noi abbiamo, meritano di essere suturate con tanto coraggio, con tanta delicatezza, con tanta cura, con tanta dedizione.
Le stesse che troviamo in queste pagine, in questa storia tutta da scoprire, nel talento fulgido e unico di Ilaria Tuti.
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Ilaria Tuti
Ilaria Tuti è nata a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l’inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d’esordio. Tra i suoi libri ricordiamo anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Del 2021 il romanzo La luce della notte, il ritorno dell’amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e speranza. Nello stesso anno esce Figlia della cenere (Longanesi).