CUORI DI NEBBIA
di Licia Giaquinto
Terrarossa Edizioni, 2022
Genere Noir, pag. 208
Sinossi. La pianura emiliana nei tardi anni ’90, avvolta dalla nebbia e dallo squallore: è qui che per un beffardo scherzo del destino si incrociano le esistenze dei protagonisti di questo noir senza redenzione. Filippo che va a puttane, sua moglie Mirella che se ne rallegra, Nicola che spia le coppiette, Natascia che ha fatto della menzogna e del suo corpo armi letali, Francesco e Patrizia che corteggiano la morte, Mirco che attraversa la notte con colpevole candore: ciascuno di loro ha un vizio o un’ossessione che lo condurrà senza rimorsi a confrontarsi con il lato oscuro del proprio cuore.
Recensione Sara Zanferrari
Sogni o incubi? Desideri o perversioni? Disillusione o anelito di salvezza?
Sono tanti gli ingredienti shakerati in questo noir ambientato fra le nebbie e gli argini emiliani, scritto da Licia Giaquinto, pubblicato nel 2007 da Dario Flaccovio e ora riproposto da Terrarossa Edizioni.
Sono tanti anche i suoi protagonisti, ben sette, a cui viene data eguale dignità, spazio, voce (non a caso, i capitoli portano oltre ai numeri anche i nomi dei personaggi, seguendo una numerazione “personalizzata”). Sette persone, sette esseri umani, di diversa provenienza, esperienze, ma con la stessa fame di vita (o di distruzione?), si raccontano in prima persona, con la propria voce, portano ciascuno i propri bagagli, gli errori, i dolori, i desideri, i sogni infranti e quelli ancora vivi e vegeti. Si raccontano, ci raccontano come potrebbero, dovrebbero, essere andate le cose. Sono vivi o sono morti? E chi sono?
Sette voci dal timbro diverso, a punteggiare però uno spartito unico, un foglio bianco con un pentagramma che prenderà forma un poco alla volta fino a suonare una stessa musica; vite parallele, apparentemente lontane, ma che alla fine si riuniranno tutte in un ordito di una stessa trama.
Mi permetto di scomodare la mia adorata Virginia Woolf, ma direi che definire questi monologhi “flusso di coscienza” qui ci sta a pennello. Una peculiarità, se possibile ancora più sottolineata dalla lunghezza delle frasi, la punteggiatura rarefatta, a dare la sensazione chiarissima di trovarsi di fronte ai viaggi mentali di chi si sta raccontando.
E si racconta usando il proprio intimo e vero linguaggio, quello per lo più di persone poco studiate, dove spariscono congiuntivi e concordanze, una scrittura di semplicità in realtà ricercata, affatto facile da riprodurre per chi l’italiano lo conosce molto bene.
Un italiano parlato, per assurdo, perfettamente solo da Natascia, la prostituta russa, che però lo ha appreso nei mesi estivi trascorsi da bambina in Italia presso una famiglia colta e benestante, migliore senz’altro del proprio, a detta dello stesso Filippo, contadino ignorante e sgangherato che si innamora di lei, trovando dentro a sé stesso quella spinta amorosa e, soprattutto, quelle parole che non sapeva di avere dentro di sé.
“Eravamo pari io e la Mirella, che neanche a lei gliene uscivano tante di parole, come se la lingua, a muoverla, ci facesse male, tanto che io avevo sempre pensato che ero un tipo chiuso di carattere. Invece con la Natascia la lingua mi si è sciolta come una ballerina e non riuscivo a stare un secondo senza parlare, le dicevo tante di quelle belle frasi che non so da dove mi venivano fuori, che mi fiorivano sulla bocca senza accorgermene, e mai avevo pensato di avere quel dono di usare le parole in quel modo, e anche mentre lavoravo sentivo dentro di me queste bellissime frasi e allora cercavo di scriverle”.
È un personaggio bellissimo, Filippo, tenero, disarmante, quello che forse dà il colore, la tonalità allo spartito, come la chiave di violino o il modo maggiore o minore.
Ma non sono da meno gli altri sei, Mirella, Natascia, Nicola, Francesco, Mirco, Patrizia, tutti da leggere, ascoltare, comprendere e, alla fine di tutto, semplicemente amare.
Un noir che non offre salvezza, concede ben poche speranze, lascia trapelare pochi o nulli squarci di luce a rompere la nebbia fitta della bassa padana e della triste, e un poco tragica, vita di routine dei sette protagonisti. Nessuna salvezza, per quanto possano agitarsi a cercare una via di uscita dalle proprie grigie esistenze, perché, come dice Filippo
“È proprio vero. Il destino è il destino e fa quello che gli pare, e tutte le cose di prima e di dopo sono una attaccata all’altra come le carrozze di un treno, che la prima trascina la seconda e così via”.
Così dice Filippo, che nella sua assoluta semplicità, in fondo, ha già capito tutto.
E un finale geniale, a chiarire il mistero di cosa sia successo quella notte lungo la via Emilia, fra gli argini e la nebbia, dove tutte le domande troveranno (forse) risposta.
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Licia Giaquinto
è nata in Irpinia, dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ora vive a Bologna. Ha esordito nella narrativa con Fa così anche il lupo (Feltrinelli 1993), a cui sono seguiti È successo così (Theoria 2000), Cuori di nebbia (Dario Flaccovio 2007, ora riproposto da TerraRossa Edizioni), La ianara (Adelphi 2010), La briganta e lo sparviero (Marsilio 2014). Ha scritto anche testi teatrali, l’ultimo è Carmine Crocco e le sue cento spose. È ideatrice e anima dell’associazione Aterrana – Ater Ianua che vuole contrastare il degrado e lo stato di abbandono del borgo storico di Aterrana (Av).