Michael Bible
Traduttore: Martina Testa
Editore: Adelphi
Genere: Narrativa
Pagine: 156
Anno edizione: 2025

Sinossi. C’è un posto, a New York, che chiamano Goodbye Hotel, perché è l’ultimo rifugio di chi, per ragioni diverse, si è allontanato dal mondo e nel mondo non vuole (o non può) più tornare. Lì, mentre una nevicata «ipnotica» cade sulla città, François siede davanti al fuoco, stappa una bottiglia di vino da quattro soldi e inizia a scrivere la sua storia. Vuole metterci a parte di un avvenimento capitato venticinque anni prima, ma soprattutto raccontarci quello che sarebbe potuto succedere e – forse – è successo davvero. Ha a disposizione solo «un pezzetto di verità», che certo non basta a colmare tutti i vuoti. La sua voce, carica di un’antica sofferenza, ci trasporta ancora una volta a Harmony, un’anonima cittadina del Sud degli Stati Uniti, dove ogni sera «si confonde con un milione di altre sere» e i giovani sono «destinati a perdersi» ma non smettono di desiderare «l’impossibile». Dove «non c’è differenza fra chi è amato e chi non lo è», perché «tutti si sentono soli, con addosso la maledizione di un vuoto americano che gli cresce dentro». Eppure, come sanno i lettori di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, Harmony è anche un crocevia dove il destino dà appuntamento alle sue vittime ignare: in questo caso due ragazzi innamorati e un misterioso uomo con un completo di seersucker, che in una notte di fine estate si incontrano sotto lo sguardo benevolo e saggio di Lazarus, una tartaruga dai poteri chiaroveggenti, indimenticabile protagonista del romanzo. Perché nell’universo di Michael Bible il passato può facilmente diventare futuro e viceversa; come in un sogno di David Lynch, a una dimensione della realtà ne corrispondono infinite altre, parallele e comunicanti. Non ci resta quindi che abbandonarci al ruolo di testimoni involontari e accettare che la verità a volte risulti inaccessibile, protetta da un guscio di bugie e inganni simile a quello di una testuggine centenaria.
Recensione
di
Barbara Aversa
“Dicono che due particelle possono avere un legame così forte da cambiare direzione nello stesso istante a un milione di chilometri di distanza. Una danza cosmica che supera il tempo e lo spazio. Mi piace pensare che ogni momento possa essere così intrecciato, così unito per sempre a un altro che il tempo e lo spazio perdono importanza. Nessun inizio e nessuna fine, solo due punti di una lunga orbita che fanno continuamente ritorno.”
Goodbye Hotel. Forse chiamato così perché per molte persone diviene l’ultimo domicilio. La separazione dal resto, l’arrivederci. Con la neve che scende ipnotica François ripensa alla sua storia, e la scrive.
Siamo ad Harmony, nel sud degli Stati Uniti, venticinque anni prima.
Eleanor e la sua scomparsa sono il perno di tutto. E poi c’è Lazarus, una tartaruga che sembra predire il futuro mentre si alternano le vite che si incastrano alla sua. Prima c’è Little Lazarus, trovato da Eleanor sulla 14ª strada. La luna è sopra i grattacieli e per le strade sembra che le persone si stiano innamorando, o forse l’opposto. Difficile scindere.
La provincia americana, narrata con una voce onirica e potente, attraversa il destino dei suoi protagonisti. Tutti vorrebbero assurgere a una realtà migliore, evolutiva, ma restano (quasi) sempre incatenati a eventi ineluttabili.
Le tartarughe (o la tartaruga, che passa da Little a Lazarus e basta) sopravvivono alle persone che incontrano e le osservano tessere fila di insiemi che restano sempre scomposti.
Questa è la seconda opera dell’autore statunitense, permane l’atmosfera creepy e a tratti sfumata tipica dei suoi racconti e la sua voce netta, ipnotica, affilata. Si viene avvinti dalle parole, come in un sogno, dove non tutti gli elementi si stagliano chiari, ma che al risveglio lasciano sensazioni intense, più chiare dei segmenti onirici, perché è il sentire a prevaricare sui fatti.
Talvolta i livelli si incastrano e confondono nei racconti che sfiorano il visionario senza mai sfociare completamente nel caos. Perché tutto resta nitido e feroce, come quel destino ineluttabile osservato dagli occhi incavati e attenti di due rettili meditativi e chiaroveggenti.
Lazarus per tutta la vita si è spostato da un luogo all’altro, lento ma in movimento costante, finchè arriva l’attimo in cui non sente più l’urgenza di andare da nessuna parte. Eppure continua a incontrare persone, è il protagonista di video virali, è testimone oculare di esistenze che necessitano di spettatori super partes.
Perché dalla sua posizione si possono osservare le persone per come sono e non per come fingono -involontariamente?- di essere.
E quel finale ombreggiato è come una corsa nottetempo, in mezzo ai boschi. Con l’iridescenza della luna, unica guida nel buio, con l’ipnotico e costante sciabordio delle onde che ci fa sentire a casa.
Il fil rouge che segue tutto il romanzo non è solo questa magica tartaruga, ma la scissione tra tempo e spazio che investe l’anima. E la vera tragedia: quella che condanna gli esseri a restare per sempre insieme e per sempre distanti. Una dicotomia inafferrabile, fatale, insostenibile.
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Michael Bible
è un autore e libraio statunitense. Nato in North Carolina, ha scritto per l’Oxford American, The Paris Review Daily, Al-Jazeera America, ESPN The Magazine, e il New York Tyrant Magazine. Tra i suoi titoli, pubblicati in Italia da Adelphi, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (2023), Goodbye Hotel (2025).
A cura di Barbara Aversa
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